Terra cielo e ‘inferni mondani’. A proposito di Italo Calvino e Andria, di Giuseppe Brescia.

Italo Calvino“Utopia-Kritik” e “Utopia-Entwurf, l’Utopia come ‘critica’ e come ‘progetto’, sono esibite nelle “Città invisibili” di Italo Calvino ( secondo P. Kuon, “Italienische Studien”, 10, 1987 ): dove Marco Polo e Kublai Kan dialogano in una serie di fitti incroci combinatori a proposito del destino e della prospettiva delle ‘città invisibili’. Comunista e responsabile culturale del Partito, Calvino (1923-1985 ) soffrì molto per l’invasione dei carri armati sovietici a Praga nel ’68 ( dopo la dura repressione della rivolta ungherese nel 1956: “Quel giorno i carri armati uccisero le nostre speranze”, nella “Repubblica” del 13 dicembre 1980 ). E il giorno 9 giugno 1964, confidava tra l’altro a Germana Pescio Bottino: “Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere ( Quando contano, naturalmente )”.

In particolare: “Sono nato mentre i miei genitori stavano per tornare in patria, dopo anni passati nei Caraibi ( confida anche Calvino al Sindaco di Sanremo ): da ciò l’instabilità geografica che mi fa continuamente desiderare un a l t r o v e” ( Paola Forneris e Loretta Marchi, “Il giardino segreto dei Calvino”, De Ferrari, 2004 ). Tra le opere che contano, c’è la favola narrata con nomi di donne ideali o ( per efficacia di ciò che Nikolai Hartmann chiamava “Idealrealismus” ), magari, “ideal-reali”: nomi conferiti, avendoli attinti di volta in volta al mito od alla fantasia, alle varie città. E tra questi nomi, c’è “Andria”, luogo fantastico ( ma indubbiamente anche storico ), nel libro del 1972 ( anno in cui collaboravo, di già, a “La Cultura” di Guido Calogero e Gennaro Sasso, “Nord e Sud” di Francesco Compagna, “Rivista di studi crociani” di Alfredo Parente e l’ “Archivio Storico Pugliese” di Francesco Maria De Robertis e altri ).

alba a Sud dell'equinozio di primaveraCalvino, elegantemente il lettor depistando, dice in premessa: “Nelle ‘Città invisibili’ non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate; le ho chiamate ognuna con un nome di donna”. Ma l’unica storicamente “riconoscibile” è proprio “Andria”. Non sarà forse il caso di ricordare che talvolta gli stessi autori s’ingannano a proposito della qualificazione della propria opera ( Petrarca si aspettava la fama la fama dall’ “Africa” in latino, piuttosto che dal “Canzoniere”, detto “Rerum vulgarium fragmenta” ): o non piuttosto, forse, che Italo Calvino, in questo caso, abbia contratto e assimilato in un solo nome l’aspetto letterario con quello utopico, e lo storico ed esistenziale con il profetico e fantastico?

La notorietà dell’autore e la suggestione dell’opera, la loro incidenza in campo internazionale e in dimensioni culturali pluriprospettiche, han fatto sì che nei dintorni fiorissero interpretazioni estetiche e iconologiche ( l’acquaforte del 2002 di Colleen Corradi; la foto in album di Claudio Cumin di Trieste scattata con fuso orario del 31 marzo 2010, esposta nella Sala Comunale d’ Arte ‘G. Negrisin’ di Muggia dal febbraio al marzo 2012 ); architettoniche e urbanistiche ( “Monumento-Documento Onlus” di Palermo del 2007 ); etico-politiche ( “Andria è una città leibniziana ? L’armonia prestabilita di celeste e terrestre”, in “beta.trytweetbook.com” – ‘invisibili cieli’, con vario dibattito della cosiddetta “rete” degli ultimi anni ); oltre a una vastissima letteratura critica, di cui si porgono solo alcune tappe ( C. Milanini, “L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino”, Garzanti 1990; F. Serra, “Calvino e il pulviscolo di Palomar”, Le Lettere, Firenze 1996; Jean Starobinski, “Prefazione” ai “Romanzi e racconti”, I, Milano 1991; C. Varese – I. Calvino, “Dialogo sulle Città invisibili”, negli “Studi novecenteschi” del marzo 1973; Umberto Eco, “La combinatoria dei possibili e l’incombenza della morte”, 1980, poi in “Sugli specchi e altri saggi”, Bompiani 1985, pp. 209.211; M. Balice, “Le città di Calvino”, in “Paragone-Lettaratura”, dell’agosto 1986; Carlo Ossola, “L’invisibile e il suo ‘dove’: ‘geografia interiore’ di Italo Calvino”, “Lettere italiane”, aprile-giugno 1987; F. Ravazzoli, “Le città invisibili di Calvino: utopia linguistica e letteraria”, “Strumenti critici”, maggio 1987; M. Barenghi, “Note e notizie sui testi. Le città invisibili”, in “Romanzi e racconti”, cit., II, Milano 1992 ).

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Ora tento, più che altro approccio secondo uno specifico angolo visuale, la rilettura della intensa pagina calviniana, pregiandone, come distillato di verità, i punti di “tenuta” del ragionamento, che sono però anche, alla lor volta, il frutto di anelito conoscitivo, pùngolo storico e slancio visionario dell’anima, recuperando aspetti di ermeneutica filosofica ed epistemica precedentemente svolti.

In tale approccio, combinerò via via gli aspetti di Andria “ideal-reale”, Castel del Monte e mito astronomico, utopia e dis-topia nel campo della nozione filosofica di “accadimento”, “senso dell’infinito” e astrologia, “tirannia degli astri” e sua elisione in virtù del principio di “influenza reciproca” come forma e legge dell’azione a distanza, tessitura di “linee straordinarie che s’incontrano all’infinito”, qual adempie e teorizza la visione calviniana del mondo, e ( al suo interno ) lo stemma joyciano “H.C.E” ( Here Comes Everybody ), ripreso dalla “Veglia di Finnegans”, per resultare inscritto nell’ottagono federiciano, come “Here Circulates Entering Every Idea” ( “H.C.E.”: Hecco Checircola Entrandognidea, nei miei “Joyce dopo Joyce”, Napoli 2003; “Tra Vico e Joyce” e “La profezia e l’ipotesi”, Bari 2005 e 2007 ).

Andando in ordine, narra, dunque, Italo Calvino nella Sezione IX, “Le città e il cielo. 5”:
“Con tale arte fu costruita Andria, che ogni sua via corre seguendo l’orbita d’un pianeta e gli edifici e i luoghi della vita in comune ripetono l’ordine delle costellazioni e la posizione degli astri più luminosi: Antares, Alpheratz, Capella, le Cefeidi. Il calendario della città è regolato in modo che lavori e uffici e cerimonie si dispongono in una mappa che corrisponde al firmamento in quella data: così i giorni in terra e le notti in cielo si rispecchiano. Pur attraverso una regolamentazione minuziosa, la vita della città scorre calma come il moto dei corpi celesti e acquista la necessità dei fenomeni non sottoposti all’arbitrio umano. Ai cittadini d’Andria, lodandone le produzioni industriose e l’agio dello spirito, m’indussi a dichiarare: – Bene comprendo come voi, sentendovi parte d’un cielo immutabile, ingranaggi d’una meticolosa orologeria, vi guardiate dall’apportare alla vostra città e ai vostri costumi il più lieve cambiamento. Andria è la sola città che io conosca cui convenga restare immobile nel tempo. Si guardarono interdetti. – Ma perché mai ? E chi l’ha detto ? – E mi condussero a visitare una via pensile aperta di recente sopra un bosco di bambù, un teatro delle ombre in costruzione al posto del canile municipale, ora traslocato nei padiglioni dell’antico lazzaretto, abolito per la guarigione degli ultimi appestati, e – appena inaugurati – un porto fluviale, una statua di Talete, un toboga. – E queste innovazioni non turbano il ritmo astrale della vostra città ? – domandai. Così perfetta è la corrispondenza tra la nostra città e il cielo, – risposero -, che ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle -. Gli astronomi scrutano coi telescopi dopo ogni mutamento che ha luogo in Andria, e segnalano l’esplosione d’una nova, o il passaggio dall’arancione al giallo d’un remoto punto del firmamento, l’espandersi di una nebula, il curvarsi di una spira della via Lattea. Ogni cambiamento implica una catena d’altri cambiamenti, in Andria come tra le stelle: la città e il cielo non restano mai uguali. Del carattere degli abitanti d’Andria meritano d’essere ricordate due virtù: la sicurezza in se stessi e la prudenza. Convinti che ogni innovazione nella città influisca sul disegno nel cielo, prima di ogni decisione calcolano i rischi e i vantaggi per loro e per l’ i n s i e m e d e l l a c i t t à e d e i m o n d i” ( ed. negli Oscar Mondadori, Milano 2002, pp. 150-151 e “Romanzi e racconti”, II, Milano 1992, pp. 357-470 ). Accertato che, qui, “de utopia narratur”, l’utopia della città ideale perfetta ( anche se si tratta non della città rinascimentale geometrica disegnata dal Filarete o Sebastiano Serlio, bensì della città in armonia con la mappa astronomica del cielo ), pure tutto ciò non toglie che – nella infinità della interpretazione – sussistano delle sorprendenti analogie con i piani della storia.

Nella lirica “L’estate”, del 1935, il genio gnomico di Montale dice: “Ha molte facce la polla schiusa”. In “Filosofia e Letteratura”, Calvino stesso nota: “Le parole come i cristalli hanno facce e assi di rotazione con proprietà diverse, e la luce si rifrange diversamente a seconda di come questi cristalli-parole sono orientati, a seconda di come le lamine polarizzanti sono tagliate e sovrapposte” ( nei “Saggi”, cit., I, pp. 188-196 ). Conosceva Calvino le vicende della peste in Andria e dintorni, dal Cinque e Seicento di Ettore Tesorieri in poi, visto che indugia persino sul “canile municipale, ora traslocato nei padiglioni dell’antico lazzaretto” ? ( cfr. “La penna insensata”ovvero “Passioni e luce nella poesia di Ettore Tesorieri”, Giuseppe Laterza, Bari 2007) – Conosceva Calvino le storie e leggende federiciane, legate all’ufficio e allo scrigno di Castel del Monte ( con il relativo “giuoco delle ipotesi” ) ? Non sappiamo, di certo. Pure, forse e senza forse, lo scrittore collaborò al volume “Castelli d’Italia. I castelli e le fortificazioni come straordinarie testimonianze storiche e architettoniche” ( con contributi di Carlo Perogalli, Flavio Conti e Italo Calvino, Touring Club, “Collana Il Bel Paese”, 1965 ). Il bel testo, d’interesse generale, “Castelli di delizie e castelli del terrore”, ricomparve nei “Saggi”, a cura di Mario Barenghi ( Milano 1995, pp. 1635-1647 ), oltre che nelle edizioni successive dei “Castelli”, del 1974 e 2004. La leggenda del Graal e degli “Elementi di astronomia nella architettura di Castel del Monte” ( è il testo di Aldo Tavolaro, Bari 1974, con “Castel del Monte e il segreto dei Templari”, ivi 2003, ripreso nella iconografia dei “Castelli”, anche se poi corretto e in parte confutato in Cardini 2000, Giosuè Musca e Cosimo Damiano Fonseca 2006, Raffaele Licinio e altri studiosi della sua “scuola”, nel 2002 e 2010 ) non gli era certamente estranea.

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“I cavalieri del Graal” è, infatti, una sua attenta recensione del 1981, raccolta negli stessi “Saggi” ( II, pp. 1648-1653 ). Nel bel volume del Touring, introdotto da Giancarlo Lunati, Carlo Perogalli e Flavio Conti, “Castel del Monte” figura al n. XIII della serie, e primo della Sezione “Potere e Autorità”, come il “Teorema di pietra” ( pp. 86-89), espressamente “appartenente al territorio di Andria ( 18 km. a est)”.

“E’ un insieme di spietata, lucida, ossessiva geometricità, quasi un teorema matematico tradotto in pietra, reso ancora più suggestivo – e vagamente inquietante – dalle severe forme gotiche in chiara pietra calcarea locale ( sintetizza lo storico dell’architettura Perogalli ). Ciò ha favorito la nascita di ogni sorta di voci, dicerie e studi sulla costruzione, ritenuta di volta in volta ricostruzione di una villa romana, opera longobarda o normanna, grande meridiana derivata dagli studi esoterici di Federico II”. In special modo, le illustrazioni 5 e 6 hanno la didascalia. “ Il cosiddetto Analemma di Vitruvio e la sua applicazione alla sezione di Castel del Monte. Il grafico a fianco consente di stabilire la lunghezza delle ombre portate da un’asta verticale – lo gnomone – alle diverse date d’ingresso del Sole nei segni dello Zodiaco. Secondo alcuni studiosi – tra cui Aldo Tavolaro, autore dello schema riportato – il castello di Federico II è una costruzione esoterica che trasferisce in pietra i concetti astrologici dell’epoca”.

Su tali prospezioni ( dal 1965 in poi ) poteva geometricamente fantasticare Italo Calvino, dal momento che le ritrovava sicuramente esposte e ragionate nello stesso magnifico volume, cui era stato invitato ad apporre il proprio ‘sigillum’ ermeneutico.

Calvino, nel suo saggio, parte dal romanzo di Perceval ( il cui manoscritto è serbato nella Biblioteca Estense di Modena), onde il cavaliere è intrigato dalla scacchiera d’argento posta davanti alla finestra, all’ingresso del castello, scacchiera con i cui pezzi osa giocare, risultando per ben tre volte “messo a scacco matto” ( indi accolto dalla Damigella, purché rimettesse a posto i preziosi pezzi ); e conclude il percorso letterario con il modello di caos vitale impresso da Ippolito Nievo, nelle “Confessioni di un ottuagenario”, al suo castello, là dove vive la Pisana. Poi, Calvino cesella così le varie tappe del viaggio ideale a proposito del castello: “Costruzione di pietre inanimate, il castello si rivela un essere vivente, dotato di un’oscura volontà, alla cui balìa è difficile sfuggire”. Pure, in Italia, progressivamente: “ci sembra che come segno letterario il castello tenda a nascondersi e cancellarsi. Tanto che nel Cinquecento, i grandi poemi di corte che riprendono la materia cavalleresca non danno molto spazio al tema del castello, come se i poeti non fossero più sensibili al suo fascino. Certo vi appaiono fortificazioni e assedi, ma sono città e non castelli, Albracca in Boiardo, Parigi in Ariosto, e soprattutto Gerusalemme in Tasso.. Non mancano poi i castelli di belle incantatrici: delle fate in Boiardo, di Alcina in Ariosto, di Armida in Tasso, ma già il fatto che siano circondati da giardini o isole paradisiache cambia tutti i rapporti. E’ il castello a essere contenuto nell’incantesimo, non più l’ i n c a n t e s i m o n e l c a s t e l l o “. L’intensa riflessione può esser letta, a questo punto, anche come allusione al mito di Castel del Monte, contenitore di incantesimo, dal Graal allo scrigno esoterico, di cui si favoleggia. Infine, Calvino discorre del castello di Barbablù nella fiaba di Charles Perrault ( XVII. Sec. ), secondo un itinerario – non più di delizie ma di orrore – che arriva a Edgar Allan Poe, al “Castello di Otranto” di Horace Walpole (1764), ai “Misteri di Udolpho” di Ann Radcliffe (1794), a Stendhal ( Fabrizio del Dongo ) e Manzoni ( pei castelli di Don Rodrigo e l’Innominato, specchio dei rispettivi stati d’animo ), nei loro capolavori. Fatto si è che Andria è citata di nuovo, nel volume d’arte sui castelli impreziosito dalle note calviniane, alla pagina 179, nel “Repertorio delle opere principali”, e con le foto della “Action Press”di Guido Alberto Rossi, per Castel del Monte.

Notevolmente, nella sintesi di tutte queste implicite o esplicite prospettive, Calvino dice che Andria “ripete l’ordine delle costellazioni e delle stella più luminose”. E nominando Antares, Alpheratz, Capella e le Cefeidi, indica suggestivamente, con la prima, la stella più luminosa della costellazione dello Scorpione, visibile a maggio-giugno nel cielo diurno dell’incipiente estate; e, con Alpheratz, la stella binaria spettroscopica tra Andromeda e Delta Pegasi, visibile da settembre a febbraio, scelta perché la sua magnitudine di 2,1 le consente d’esser vista da centri urbani di medie dimensioni ( potendo questo esser ben il caso della città “ideal-reale” di Andria ). Si osservi che questa seconda stella è denominata anche “Sirrah”, in arabo l’ ‘ombelico del destriero’, stante la sua posizione centrale a cavallo della costellazione di Pègaso; mentre in cinese è detta il “muro”, formato da alfa Andromedae e gamma Pégasi, come una delle “Tre Guide”, con Beta Cassiopeae e Gamma Pégasi, che segnano il primo Meridiano dei Cieli.

A conferma della scelta delle stelle più note per luminosità sovrastanti Andria, Calvino addita Capella,della costellazione dell’ Auriga,visibile nel cielo diurno di Primavera (su cui dovrò tornare ) e le Cefeidi, stelle variabili per la correlazione periodo – luminosità, il cui nome deriva da Delta Cephei, la prima variabile di questo tipo osservata nella nostra Galassia, stelle anche dette “candele”, perché atte a determinare esattamente le distanze tra le galassie in cui son contenute. Ci sono Cefeidi nelle galassie di Andromeda, o della Vergine, a 60 milioni di distanza di anni luce, alternanti periodi di radiazione calda in espansione, e di raffreddamento in fase di contrazione. “I giorni in terra e le notti in cielo si rispecchiano”, scrive Calvino: ma, nell’ultimo caso, la “immutabilità” del “rispecchiamento” sembra non implicare necessariamente la “immutabilità” dei “destini” e degli “orizzonti vitali” (contrariamente a quanto ipotizzato da alcuni prosecutori o esegeti ), dal momento che il nesso gravita proprio sulle Cefeidi, stelle – si badi – di per se stesse “variabili” per periodo e luminosità. (‘Per incidens’, mi avvalgo, oltre che dei più noti testi di mappatura astronomica del cielo, delle belle pagine dedicate da Piero Boitani, a proposito di “Palomar” di Calvino, ne “Il grande racconto delle stelle”, Il Mulino, Bologna 2012 ).

Splendida conferma al presente quadro interpretativo viene dal prezioso contributo dell’architetto Nicola Iannelli, della Università di Firenze, autore del volume “Simboli e costellazioni. Il mistero di palazzo Schifanoia” ( Pontecorboli Editore, Firenze 2012 ), che corrobora l’interpretazione storico-estetica dell’architettura con sapiente utilizzo del ‘software’, in grado di restituire la mappa universale del cielo in un determinato momento storico. Quando le costellazioni indicate da Calvino illuminano Andria ? Ora, la soluzione non può non venire anche dalla simultanea, e filologicamente fondata, domanda: – Perché e quando Calvino ha scritto “Le città invisibili”, facendo combaciare le origini di Andria e di Castel del Monte con la genesi del proprio scritto ?

Ora, la data più probabile appare quella dell’equinozio di Primavera. Guardando le coordinate di Andria all’alba dell’equinozio di primavera del 1230 ( 13 marzo 1230) e del 1972 ( 20 marzo 1972), anno di composizione del testo di Calvino, risultano infatti visibili, a Est, le stelle citate dallo scrittore Alpheratz, Capella e la costellazione di Cefeo, cui appartiene ‘delta Cephei’, la prima stella variabile mai osservata. Guardando invece a Sud, sempre al sorgere del Sole, è visibile Antares, nella costellazione dello Scorpione.

Tale momento dell’anno riveste un valore insieme altamente simbolico e storicamente pregnante, dal momento che a Castel del Monte il portale d’ingresso è orientato a Est al sorgere del Sole nel giorno dell’equinozio, creando in tal modo un collegamento sia con l’effettualità di eventi storici molto importanti per la storia di Andria e dell’Imperatore Federico in quell’anno, sia con il cielo di Andria descritto da Calvino. Infatti, dopo la prima scomunica del ’27, la autoincoronazione di Federico alla Basilica del Santo Sepolcro come Re di Gerusalemme il 17 marzo 1229, il mancato riconoscimento da parte del Patriarca e il tradimento da parte di Foggia e Lucera, il 1230 è l’anno di attestazione di fedeltà di Andria all’Imperatore ( “Andria fidelis” ), della Porta di Sant’Andrea, della offerta dei cinque giovanetti Quarti, Marulli, Fanelli, Curtopassi e Conoscitore narrata nelle Cronache di Riccardo di San Germano allo “Stupor Mundi”, della costruzione del chiostro della Chiesa di San Francesco e del riavvicinamento ( provvisorio ) a Santo Francesco ed al Papato. Tutto collima perfettamente. Ma c’è di più, nell’ermeneutica astronomica, simbolica e storica che – a questo punto – è più agevole perscrutare. A Castel del Monte vi sono anche i due leoni di breccia rossa, che ricordano quelli del Castello di Siracusa, all’ingresso, che guardano al sorgere del Sole nel solstizio d’estate e d’inverno. Appare anche qui significativo che la carta del cielo di Andria al solstizio d’estate ci offra al sorgere del sole le stelle Alpheratz, Capella e della costellazione di Cefeo; mentre all’alba del solstizio d’inverno è visibile Antares della costellazione dello Scorpione. Identiche configurazioni della mappa celeste si colgono con l’Alba a Est del solstizio d’estate ( 21 giugno 1972 ) e poi d’Inverno ( 21 dicembre ) dell’anno in cui Calvino ha composto e pubblicato “Le città invisibili”, di cui è parte la sezione “Le città e il cielo”, comprensiva dello spaccato andriese. Come dire che l’autore ha fuso e sintetizzato in una configurazione ideal-eterna il mito e la storia di Andria ( comprensiva della Corona di Puglia ) con la sua propria storia, ideativa e emblematica della possibile “utopia” delle città. “Gott ist im Detail”, avrebbe detto il Warburg. Ma la “sinossi”, così genialmente ricercata, diventa “leva” per un’altra “sinossi”, quella più ampia della storia universale, dei destini e confini stessi dell’umanità. La perfezione della protezione stellare di Andria, progettata nelle dure lotte dal “Puer Apuliae”, “Fre-de-rics” o “freno dei potenti”, può giovare come “modulo” per altre comprensioni, disposizione a ulteriori sintesi di particolare e universale, benché avvertite dei perenni limiti che ogni “filosofia della storia” trattiene nel suo seno ( v. il dialogo immaginario tra Aldo Ferrabino e Carlo Antoni, posto a sigillo del mio “Il sogno di Castorp e il progetto di Pico”, Laterza 2003 ).

Il paradigma astronomico resta essenziale. “L’uomo vide il cielo e scoprì se stesso”, nota Giulio Giorello nel “Corriere della Sera” ( Domenica 14 novembre 2010 ), a proposito di Margherita Hack, l’autrice delle “Sette variazioni sul cielo” ( Cortina, 1999 ) e “Notte di stelle. Le costellazioni fra scienza e mito: le più belle storie scritte nel cielo” ( in collaborazione con Viviano Domenici, Sperling & Kupfer, 2010 ). E “Castello di Stelle”, resta ben detto il Castel del Monte, in quanto strutturato con il progetto dell’astronomo Michele Scoto, anche se facente parte dell’intiero “sistema castellare”, in adesioni a funzioni territoriali paesaggistiche e globalmente strategiche, come insistentemente ripete Raffaele Licinio ( “Castelli medievali”, Caratteri Mobili, Bari 2010, pp. 271 sgg. ).

Pure: “La somiglianza di forme e dimensioni dell’impianto federiciano a un piano con la Cupola della Roccia ( i.e.: a Gerusalemme ) diventa manifesta non solo in pianta, ma perfino in alzato: è ben noto come Federico ne avesse ammirato la struttura ottagonale in occasione della sesta crociata; funzionalmente poi la volta stellata dipinta sulla calotta della Cupola corrisponde alla volta celeste osservabile dal cortile del castello federiciano facendo propendere verso una interpretazione non solo misurata sull’ideologia del potere, ma anche su una concezione etica i cui fulcri essenziali risultano costituiti dalla pace universale, dall’ordine giuridico e dalla cultura”( come ha ben esposto Cosimo Damiano Fonseca nella Presentazione al libro di Maria Losito, “Castel del Monte e la cultura arabo-normanna in Federico II”, Adda, Bari 2003, p. 12 ). L’ottagono, simbolo di totalità e armonia universale, immagine dell’infinito, ripreso dalla Cupola della Roccia e dalla ‘Anastasis’ di Gerusalemme in Castel del Monte, non che dipendere dal “Tetrabiblos” di Tolomeo e dagli studi dell’astronomo arabo Abu Masar del nono secolo ( di cui al Planisfero Bianchini, al Salone dei Mesi nel Palazzo estense di Schifanoia e al trattato sulla “Sphaera” di Fran Boll e altri del 1903 ), si apre con suggestivo squarcio alla vista della volta celeste dal cortile – pure ottagono – di Castel del Monte ( cfr. Maria Losito, “Il Santo Sepolcro e la Gerusalemme celeste”, Adda, Bari 2011; e la mia “Teoria della Tetrade”, Guglielmi, Andria 2002 ). “La fede orientale nelle stelle compie il tentativo di un’incredibile audacia di interpretare il mondo come un Tutto, una sola grande unità; e in questa totalità grandiosa, che unisce sotto l’impero di un’unica legge tutti i viventi, inserisce anche l’uomo”( Boll, Bezold e Gundel, 1985, p. 169: “Il senso dell’astrologia”; Saxl, “La rinascita dell’astrologia tardoantica”, in Salvatore Settis, “La fede negli astri”, Torino 1985, pp. 265-273).

Calvino, avvistosi del fatto che Andria dipende dalle funzioni delle costellazioni celesti più importanti e luminescenti, dice anche che “L’atlante del Gran Kan contiene anche le Carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New Lanark, Icaria” ( cfr. “Le città invisibili”, cit, p. 163 ).

C’eran già state la “Nuova Atlantide” di Francesco Bacone, la “Utopia” di Tommaso Moro, la “Città del Sole” di fra Tommaso Campanella, la “Repubblica d’Evandria” di Ludovico Zuccolo, “A Description of the famous Kingdom of Macaria” di Samuel Hartlib (1641), “The Commonwealth of Oceana” di James Harrington (1666), e – se si vuole – il “Leviathan” di Thomas Hobbes (1651).

La u-topia, o eu-topia, diventerà ( dopo lo spartiacque del giacobinismo, cioè dell’ uomo che ‘si fa Dio’ ) la “dis-topia” o anti-utopia dei moderni Orwell, Huxley, Zamiatin, Capek, Morselli e altri ( “Utopia degli antichi – Distopia dei moderni”, Andria 2002 ).Anche l’ “inferno terrestre” è ben noto a Calvino. Calvino dice che l’ultima sentenza delle “Città invisibili”, pregiata all’unisono da tutti i critici e censori, non va assolutizzata, perché tutto il suo libro ne è intriso. E lo si è visto proprio in “Andria”, l’inserto mitico delle “Città e il cielo”. Pure, Marco Polo conclude, ed assevera, così: “ L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” ( op. cit., pp. 163-164 ).

E dunque la risposta al “male nella storia”, agli “inferni terrestri”, all’inferno esistenziale ( o esistenzialistico ) che “sono gli altri” ( come in Sartre ), si rintraccia nel senso del “celeste”. La antiutopia non toglie che si debba continuare a cercar la utopia.

In effetti, risponde Marco Polo al Gran Kan: “per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto”.
Siamo nella enunciazione, da ermeneutica “debole”, delle tracce di una città perfetta, nello “scorcio” di un paesaggio “incongruo”, nell’affiorar della luce, o nel viavai, nella mescolanza di “frammenti”, “istanti separati”, “segnali” intermittenti, e “discontinuità”. Ma il programma di ricerca non toglie che si debba continuare a cercarla, la “città perfetta”. Solo, si tratta di vedere se, o se mai, i punti di “non tenuta”, di debole “discontinuità”, possano assurgere, per via modale e regolativa, a forme di “nuova”interconnessione, nucleo fondante per ulteriori, e future, previsioni o tenute.

La virtù della “prudenza”, come resultante del rapporto tra teoria e prassi, virtù e fortuna, volizione e accadimento, è uno dei fulcri ermeneutici di ritrovata “tenuta” regolativa. I cittadini di Andria – scrive infatti Calvino – posseggono due essenziali virtù: “la sicurezza in se stessi e la prudenza”. Virtù che presuppongono capacità di previsione, saggezza e sagacia, connessione tra volizioni individuali e destini globali, provincia ed umanità, microcosmo e macrocosmo, istituzioni locali e accadimenti mondiali. Essi abitanti, per tanto, “prima d’ogni decisione calcolano i rischi e i vantaggi per loro e per l’insieme della città e dei mondi”.

Negli anni Novanta del secolo scorso, percependo forte il senso della crisi ( diritto, ethos e kratos, condizioni del mondo della scuola e della università, e via sentendo ), tematizzai la trama di interconnessioni, pur senza focalizzare – in quella fase – la ricca suggestione e la efficace ripresa del rapporto tra Calvino e Andria, città insieme ideale e storica. Specialmente in “Pascal e l’ermeneutica” e in “L’azione a distanza”, sostavo sul frammento 531 della edizione dei “Pensieri” di Blaise Pascal, per le cure di Paolo Serini. “Tutto può esserci mortale, anche le cose fatte per servire a noi. Così, nella natura, i muri possono ucciderci, e gli scalini anche, se non camminiamo bene. Il minimo movimento interessa tutta la natura: il mare intero cambia per una pietra. Così nella grazia, la più trascurabile azione interessa, per le sue conseguenze, tutto. Dunque, tutto è importante. In ogni azione bisogna considerare, oltre l’azione stessa, il nostro stato passato, presente, futuro, e quello degli altri cui essa interessa, e vedere la connessione di tutte queste cose. Allora, si sarà molto guardinghi” . Quello che dice Calvino: “Ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle” ed “Ogni cambiamento implica una catena d’altri cambiamenti”, rientra perfettamente nel paradigma di visione globale del campo, bene prefigurato nel Pascal “stupendo, comprensivo, penetrante”, giusta la mia chiosa dell’ ’89 ( Schena Editore, Fasano 1989, IV/4, pp. 63-74 ). Premetto questo ‘nucleo fondante’, della “prudenza” e della “saggezza” come risorse etiche connesse alla esigenza di percepire il nesso tra particolare e universale, dal momento che offre il destro per lumeggiare le altre attualizzazioni aperte dalla pagina calviniana: senso del celeste; terra e cielo; usi civili e rispondenze astrali; tirannia degli astri e libertà; ‘azione a distanza’.

Il “senso del celeste”, onde si potrebbe paradossalmente dire ( ma in filosofia anche il paradosso risponde a verità ) che ogni poesia, o è “celeste”, o non è ( in virtù della dialettica delle passioni che la adempie, spingendola in senso verticale verso l’alto ), Calvino lo rintraccia onestamente persino nel Croce prefatore della edizione italiana de “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile.

Croce, in effetti, aveva ancor qui ante-visto giusto. “Non sorge l’Alba e non tramonta il Sole, in quei racconti, che egli non trovi un nuovo e bizzarro modo di metaforeggiare quelle fasi del giorno con perifrasi di questo genere: ‘All’Alba, non appena gli uccelli gridarono: Viva il Sole !’; ‘quando il Sole uscì a sciorinarsi per mandar fuori l’umido assorbito nel fiume dell’ India’; ‘quando il Sole con le ginestre d’oro dei raggi spazza le immondizie della Notte dai campi innaffiati dall’ Alba’; ‘quando l’Alba esce a cercare uova fresche per confortare il vecchierello amante suo’; ovvero: ‘ all’ora in cui le palle indorate, con le quali il Sole gioca pei campi del Cielo, prendevano la corsa inclinati verso l’Occaso..’”E via ( “Introduzione”a Giambattista Basile, “Il Pentamerone”, vol. I, Bari 1974, p. XXXVII ). E Calvino, per parte sua, commenta e prosegue:“Il mondo delle fiabe è un mondo mattiniero. Quasi in ogni pagina il ‘Pentamerone’ è illuminato da un’alba o da un’aurora. Si direbbe che per Basile il passaggio dalla notte al giorno ( e così il suo inverso ) faccia parte della punteggiatura. Già Croce apriva la sua esemplificazione dell’arte perifrastica di Basile con quattro ‘ albe scelte’ “ ( cfr. “La mappa delle metafore”. Prefazione a “Il Pentamerone”, ed. cit., vol. I, Bari 1974, pp. V-XIX ). Quel “senso del celeste”, da Dante ( “Te lucis ante”. ‘Momigliano e Bassani interpreti della poesia di Dante’ ) al Vico ( l’”avvertimento del cielo” pei bestioni e giganti della “Scienza Nuova”), da Baudelaire fino al “senso oceanico” dell’infinito, confortatore di Arthur Koestler in “Buio a Mezzogiorno” e nella “Scrittura invisibile”; ebbene lo stesso appello riluce ne “Il cielo sono io”, a proposito dello scienziato e mitologo Giorgio De Santillana, “Fato antico e fato moderno” ( “La Repubblica”, 10/148, 10 luglio 1985, pp. 22-23: poi negli stessi “Saggi” calviniani citati, II, pp. 2085-2091), oltre che nella tessitura combinatoria delle “Città e il cielo”.

Ora, il segno della visione, interno alle “Città invisibili”, è chiaro. Cielo e terra, attività urbane e prospetti astrali, volizioni dei singoli e accadimenti totali, son “tenuti” insieme da una relazione di reciproca interdipendenza e intima implicazione. Sorge spontanea l’altra domanda. Conosceva, Italo Calvino, le ‘storie’ del Salone dei Mesi, a Palazzo Schifanoia, in Ferrara, con la fascia dei “decani” intermedia, atta a rapportare la superiore, contrassegnata da divinità dell’Olimpo classico, con la inferiore impegnata nella rappresentazione di attività mercantili, agricole, civili e di ambasceria del Duca estense e della sua corte ? Non è affatto da escludersi, tra l’altro essendo raccolto il Castello di Ferrara nella stessa Sezione su “Potere e Autorità” che s’inaugura con Castel del Monte (nel volume d’arte più volte citato). E’ qui che rientra in gioco la duplice funzione di “Capella”, astro fulgente per un verso, effigiato nel mese di Aprile, al Salone dei Mesi in Schifanoia, segno del Toro o inizio della Primavera, nel decano di sinistra, avente a simbolo astronomico l’ A u r i g a; fonte ermeneutica ed erudita di gran momento, per l’altro. Dove, lo “schema della costellazione forma anch’esso una specie di pentagono”, sia astronomicamente quanto iconograficamente, giusta la effigie di Schifanoia ( figura del bambino voltato di spalle).

Osserva bene, sul punto, Gianluigi Magoni: “Se alla testa del bambino si fa corrispondere Capella ( CAPELLA), la stella più luminosa del gruppo, la donna viene delineata da tre stelle” ( “Le cose ‘non dette’ sui decani di Schifanoia”, Ferrara 1997, Accademia delle Scienze, pp. 47 sgg. ).

Ma perché il bambino è rappresentato di schiena rispetto al Sole ?, – è non soltanto lecito, ma doveroso, chiedersi ancora. Nel rispondere a questa domanda, è bene richiamarsi alla funzione ermeneutica di Hermes – Mercurio, dio dell’interpretazione e dello scambio, “dio dei confini”, del “mondo oscillante”, “Koinos Hermes” ( così caro alla mente di Calvino, e come discusso nel fitto carteggio tra il Kerenyi e Thomas Mann ), da un lato; e alla fonte prima di tutta questa esegesi, singolarmente omonima di “Capella” (Stella), che risulta essere “Le nozze di Filologia e Mercurio” di Marziano Capella, il retore medioevale studiato da Ilaria Ramelli, curatrice esemplare dell’opera ( Bompiani 2001, pp. 627-629, al Cap. VIII, par. 879-880 ). Dove sta scritto: “lo stesso Stilbonte (Mercurio ), benché incontri il Sole da diversi circoli, non potrà mai allontanarsi da esso oltre i 32 gradi, né discostarsi di due costellazioni, ora passando oltre, ora fermandosi, ora regredendo”.

Nel mito, Mercurio deve dunque raggiungere Apollo – Sole perché solo con il parere favorevole del fratello può scegliere la sposa. Nella scienza astronomica, Mercurio che cerca il dio segna il momento in cui il pianeta, esaurito il moto di “retrogradazione”, avanza direttamente verso il Sole da cui si venuto a trovare in “elongazione”, o più lunga distanza ( cfr., su tutti, Walter Fontanella, “Mercurio alla ricerca di Apollo-Sole. La teoria eliocentrica di Eraclide Pontico nel ‘De Nuptiis Philologiae et Mercurii’ di Marziano Capella”, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti”, 135, 1975-1977, pp. 308-312: su cui sosta giustamente Giovanni reale, “Botticelli”, IdealLibri, Rimini 2001, pp. 242-243).

Mercurio, in effetti, nella “Primavera” di Botticelli, è “retrogrado”, di spalle, perché non ha ancora invertito il suo corso “retrogrado”, andando direttamente verso il Sole ( come accade solo all’avvento della Primavera ). E quando Pico della Mirandola, autore delle poesie giovanili ( 1478-1483), si reca a Firenze nel 1480, dopo aver visto, all’epoca del primo soggiorno ferrarese ( via del Podestà, 1479-1480 ), il Salone dei Mesi, è come se avesse detto a Sandro Botticelli: “Guardate che la Primavera raffigurata da Capella, la Stella omonima del Retore, rappresenta propriamente il momento della “retrogradazione” di Mercurio, nel “moto diretto” dello stesso dio “oscillante” verso Apollo, dio del Sole !” E il Sole, a Schifanoia, è in effetti il perno centrale di tutti i Mesi, sempre in basso e al centro, come riferimento di qualsiasi moto d’astri e pianeti, dei e decani ! Per ciò stesso, secondo la mia ipotesi, Pico fa inserire a Sandro Botticelli il personaggio di Mercurio, assente in altre fonti letterarie ( cfr. “Ipotesi su Pico”, Bari 2011, pp. 96-97 ).

In definitiva, il programma iconologico e astronomico della “Primavera” era solo implicito nel salone dei Mesi del Palazzo Estense ( Aprile), affacciandovisi invece Mercurio nel mese di Luglio. E tutta l’ermeneutica d’arte, estetica, poetica e letteraria ( con il Poliziano e altre fonti ) non può prescindere dall’approccio astrologico, dalla densità spontanea di cultura astronomica e solare su cui s’imperniava la visione del mondo degli umanisti. Donde il “senso del celeste” nell’ultimogenito dei classici, Italo Calvino ( cfr. almeno, di Pico, le “Disputationes adversus astrologiam”, 1492-1494, ed. Garin, Firenze 1946, I-II; la “Carta celeste” di Albrecht Durer, del 1515; Joannis Pontani “De rebus coelestibus”, II, Florentiae, 1520, alle cc. 69v.-71r.; Albumasar, “De stellarum principatu”. V.12. “Introductorium in Astronomiam”, Ausburg, Erhardi Ratdolt, 7 febbraio 1489; Giambattista Della Porta, “Delle celeste fisionomia”, Padova 1616; fino a Pierre Duhem, “Le système du monde”, Paris 1911 e al fondamentale discorso di Aby Warburg, “Arte e astrologia nel Palazzo Schifanoia di Ferrara, Roma 1912; SE, Milano 2006 ).

Appare stretta, infine, l’analogia tra le “modalità” strutturate dai maghi estensi, Pellegrino Prisciani e altri ( autori del programma iconografico affidato a Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti ), per Borso d’Este, e le “modalità” della ‘rapportatio’ intuita da Marco Polo – Calvino a proposito del legame tra gli uffici della città ideale ( “Andria” ) e la disposizione del firmamento sovrastante. Calvino, mente globale, ne era consapevole, come già presagivo nella Parte ermeneutica de “L’azione a distanza” (1990), partendo dalla discussione dell’ultima opera, incompiuta, i “Six Memos for the next Millennium” ( in italiano, “Lezioni americane”: precisamente, nel paragrafo “L’ansia conoscitiva di Calvino: l’ anima del mondo come relazione tra le due cultura”, Cap. II/2 de “L’azione a distanza”, Fasano 1990, pp. 24-28 ). Là dove il nesso tra Calvino e l’ermeneutica filosofica era assicurato dalle “approssimazioni all’accadimento”, collaborando efficacemente il coevo prospetto del “Pendolo di Foucault” di Umberto Eco ( “Eco e la totalità storica”, Cap. II/3 de “L’azione a distanza”, pp. 28-30 ).

Ma c’è di più nella complessa, e apparentemente lineare ( da 1 a 5 per ogni tipologia di “città invisibili” ) orditura del lavoro di Calvino. Il problema postovi lucidamente, anche se in forma invero stringata, è proprio quello dell’alternativa “dialettica” tra la cosiddetta “tirannia degli astri” (Schifanoia per Aby Warburg, Marco Bertozzi, Luigi Magoni ) e la “purezza cristiana” della libertà personale ( ad esempio, come trattata nelle citate “Disputationes adversus astrologiam” di Pico ). O con un programma iconografico ( Warburg ), o astrologico ( Magoni ), ora in riferimento alla levità ( Bertozzi ), ora con accentuazione di aspetti calligrammatici ed estetici da “vie des formes” ( nella mia tesi degli influssi reciproci Pico- Botticelli; le Grazie e la Vergine ), è stata varie volte saggiata la soluzione del cruciale problema, affidato alla modalità del ruolo cruciale assolto dai “Decani”, che presiedono alle attività dei mesi.
alba ad Est dell'equinozio di primavera

Così, Calvino affronta e risolve identico problema, scavalcando direttamente il gran tema della “libertà” dell’individuo di fronte alla “Tirannia degli astri”, mediante un aspetto “modale”: la “reciproca” influenza tra mutamenti astrologici e accadimenti o usi civili da una parte, e usi civili e mutamenti astrologici, dall’altra. “Così perfetta è la corrispondenza tra la nostra città e il cielo – risposero ( i.e.: i cittadini di Andria )-, che ogni cambiamento di Andria comporta qualche novità tra le stelle”.

In questo stupefacente modo ( tanto più assunto nel breve giro della prosa del Calvino ), agisce una forma di “rispecchiamento”, una “interrelazione”, tra la città e il cielo, che restano certo distinti e distanti, ma pure intimamente connessi, sì che nessuno dei due mondi “prevale” sull’altro, ma non tanto per una libera assunzione di responsabilità da parte degli abitanti di Andria verso le prospettive celesti; sì – bene – perché i due piani si “influenzano” e corrispondono strutturalmente. Ecco il punto. E’ un “Prinzip der Naherwirkung”, o annullamento di influenze reciproche, paradigma di “azione a distanza”, di cui l’alternativa “tirannia degli astri” – “libertà della persona” costituisce caso particolare ( “L’azione a distanza”, 1990, Prefazione, pp. 9-16 ). Calvino, sempre attento all’ermeneutica epistemologica e alle dottrine della conoscenza scientifica, ne era ben consapevole.

Tutto ciò fa riemergere un’altra verità: “Ogni cambiamento implica una catena d’altri cambiamenti”. Si ritorna, per certi versi, a Pascal: “Il minimo movimento interessa tutta la natura: il mare intero cambia per una pietra” ( “Pascal e l’ermeneutica”, cit., IV/4, pp. 63-74, sul fr. 531 ). Solo che in Pascal tanto avviene nell’orizzonte della Grazia o della Provvidenza; mentre per i moderni, con l’azione a distanza, principio di forze che interagiscono e si annullano a vicenda ( dibattito tra paradosso Einstein – Podolskj- Rosen; replica di Bohr; esperimenti di Aspect ); ovvero con i poteri della mente umana, incline a sfiorare i segreti della mente di Dio ( Stephen Hawking): comunque sempre come tematizzazioni dell’ “Accadimento”, sintesi di tutte le volizioni – azioni, la risposta a tutte le proposte ( Croce 1909 : cfr. i capitoli II/5. “Approssimazioni all’accadimento ed epistemologia debole” – “La totalità cosmologica nella sintesi epistemica di Hawking”, in “L’azione a distanza. Ermeneutica, teoria fisica, cosmologia”, cit., pp. 31-32 ).

Di fronte al richiamo di Croce, a proposito della “Fine della civiltà” (1946 ), o all’appello di Martin Heidegger, “Ormai solo un Dio ci può salvare” ( ed. Guanda, 1987 ), ci sono state le repliche e le interpolazioni di Norberto Bobbio ( “Salvarsi da soli”, in “La Stampa”, del 17 luglio 1989); Sergio Quinzio (“Il pettine di Dio”, in “La Stampa”, dell’ 11 febbraio 1989 ), sino alle diligenti note di Salvatore Valitutti ( “Salvare la terra per salvare la civiltà”, “Stampa sera” del 27 febbraio 1989 ). La utopia ( ideale ma storica ) di Italo Calvino può soccorrere ancora nella “salvezza” della città e della civiltà, in tutto il denso spessore della sua narrazione riflessiva. Dall’Inferno mondano si possono prender le distanze, non per evaderne ma per segnare i punti di risorsa, i “limiti alla bestia”, le conseguenze non volute di azioni umane intenzionali e costruttivistiche, che poi vuol dire – in ultima analisi- ritrovare il “latte dell’umana gentilezza”, e la “umana pietà”.

A questa restituzione ha teso la riscoperta di “Andria”, la rilettura del rapporto tra Italo Calvino e Andria, per la cui tessitura non dispiaccia – a parziale giustificazione dell’esser andati forse oltre nel pluriprospettivismo ermeneutico – quanto lo stesso Calvino dice nella “Prefazione” alla raccolta delle “Fiabe italiane”, a metafora della infinità e storicità della interpretazione ( Einaudi, Torino 1957, pp. XV- XLIII ): “ ‘La novella nun è bella, se sopra nun ci si rappella’, la novella vale per quel che su di essa si tesse e ritesse ogni volta chi la racconta.. ( e qui il proverbio e Benedetto Croce s’incontrano”.

In generale: “Si possono tracciare delle linee che collegano Poe, per esempio, a Borges o a Kafka – insiste il nostro Autore – : si possono tracciare delle linee straordinarie che non finiscono mai” ( “La mia città è New York”, ancora nei “Saggi”, cit., II, 1995, pp. 2906 sgg. ). E codeste “linee straordinarie che non finiscono mai” attingono, oltre New York, le altre “città invisibili”, fino alla Puglia del maniero federiciano, con le coordinate spaziali, astronomiche, solari, estetiche e matematiche che inquadrano la città nel cui “territorio” ( o “paesaggio” ) Castel del Monte è situato.

Vi convergono lo “studio”; la “intelligenza chiara”; il “pathos della distanza” ( come di Calvino scriveva Cesare Cases ); la percezione dei “vari livelli della realtà in letteratura”; il “Castello dei destini incrociati”; “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; la “mappa più particolareggiata possibile” della “Sfida al labirinto” ( del 1962 ); l’io scrivo perché “è solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto” ( “Nota” 1960 a “I nostri antenati”, Milano 2003, pp. 413-422 ); e la dichiarazione “autoriale” da “Madame Bovary c’est moi” di Flaubert al “Kafka c’est moi” dello stesso Calvino.

“Io scrivo che Omero racconta che Ulisse scopre che le Sirene sono mute”; mentre in realtà l’idea delle Sirene silenziose è di Franz Kafka ( “Il silenzio delle sirene”, del 1917, in “Tutti i racconti”, ed. Pocar, Milano 2009, pp. 388-389 ). Notevolmente Kafka, in un inserto “Durante la costruzione della muraglia cinese”: “Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza”, segue il paradigma dell’asse dei linguaggi “L’osservatore influenza la realtà osservata”, nello sviluppo dei suoi momenti. 1. Temendo l’influsso del canto ammaliante delle Sirene, Ulisse riempie le orecchie di cera facendosi incatenare all’albero maestro. 2. Le Sirene non cantavano credendo di sopraffare tanto avversario con il silenzio e ammirate della beatitudine del volto di Ulisse. 3. Ulisse, per parte sua, “non udendo il loro silenzio”, immagina – dalla postura del collo – che le stesse cantino e che soltanto lui stesso resti preservato dall’udirle. 4. Le Sirene non hanno più la voglia di sedurre, volendo solo ammirare gli occhi di Ulisse. 5. E così sopravvivono, generando una percezione erronea da parte di Ulisse, che, egli stesso, scampa. 6. Pure, Ulisse steso, l’ “astuto” per antonomasia, si è già avvisto del silenzio, o lo ha considerato come possibilità, opponendo la propria “finzione” sia agli dèi che alle Sirene ( cfr. Fabrizia Sforza, “Se Calvino legge Kafka”, in “Poetiche. Rivista di letteratura”, vol. 15, n. 38, 2013, pp. 119-150 ).

Le “linee straordinarie che s’intersecano senza finire mai”, dopo aver toccato – in Calvino – Alessandro Dumas e Raimond Queinau, Borges e Mann, Beckett e Pasternak, Hemingway e Conrad, joycianamente si modellano sullo stemma H.C.E. ( “Ecco Qui passa Ognuno” ), rifinito nell’ atmosfera di Castel del Monte “Ecco che circola entrando Ogni Idea” ( Here Circulates Entering Every Idea ).

Esse involgono, sulle tracce di “Finnegans Wake”, non solo l’archetipo della quaternità( perfino straripante in Joyce ), il fiume del tempo, la dottrina dei corsi e ricorsi storici, il rapporto padre /figlio, le quattro contrade dell’Irlanda e di Dublino, i quattro evangelisti al Book of Kells, Anna Livia Plurabelle e il mito della donna – fiume, la riscoperta originaria della poesia e la freschezza del’vitale’;ma,annunziando il ‘1994’, la presenza del male nella storia, i suicidi di massa in Svizzera e Francia, il ‘Te Deum’ di Papa Giovanni Paolo II della fine 1993, la crisi del diritto e della legalità, il dilagare della violenza. Il pensiero spirituale della crisi soffia attraverso le sale e le torri del Castello; e, attraversandole, si lascia decrittare e interpretare.

“Quale travaglio si vive, quale supremo appello della coscienza morale ! In un momento di grave penuria esistenziale, di buia percezione, allorché i valori si cangiano in disvalori, il richiamo ai maestri risulta vilipeso, il terrorismo si insinua e vince, la crisi dello stato di diritto si esalta, qual meraviglia se una voce recondita sembrasse dire, dal profondo del cuore. – Allora, descriviamo l’Apocalisse – ? ( v. il “1994”. Critica della ragione sofistica, Laterza, Bari 1997; “Il sogno di Castorp e il progetto di Pico”, Bari 2003; “Ipotesi su Pico e i diritti umani in Occidente. Dal ‘De dignitate hominis’ al ‘De novissimis temporibus coniectura’ “, nelle “Ipotesi su Pico”, Bari 2011, p. 42 in: 23-59 ).

Ficcando il viso a fondo, bene si raccolgono le tappe d’incubazione del male, nel progetto storico e apocalittico di Pico, sempre all’insegna del “nome di Dio nominato invano”, a partire dal 1480, anno della presentazione delle sue “Conclusiones nongentae”, fino alle date di preparazione dei supplizi di Michele Serveto (1552), Bruno e Campanella (1592 ) e dello stesso Galileo Galilei ( 1632 ).

Il carattere ‘figurale’, incoativo, del male ricompare nella cadenza dei quaranta, con la estate del 1672, quando Isaac Newton passa dalla discussa“Teoria dei colori” al “Trattato sull’Apocalisse”: ove la Bestia pagana ( dalle dieci corna )genera la grande Apostasia ( Bestia con due corna ), a simboleggiare – per Newton che fece per ciòscandalo a lungo _ la corruzione di tutte le chiese riformate. Mentre la Meretrice e il falso Profeta ( altre due figure allegoriche della Bestia ) sottolineano il successo del Dragone, figura di Satana, che dà potere e autoritàalla dominanza della Bestia sulle chiese.

“Saetta previsa vien più lenta”, insegna padre Dante. Mai lezione ‘profetica’ fu più centrale, considerata la storia dei manoscritti newtoniani, visti da Samuel Horsley ( il curatore dell’ ‘Opera omnia’ di Newton nel 1779-1785 ); ceduti alla Università di Cambridge nel 1872; restituiti al British Museum e venduti all’asta nel 1936 a Lord Keynes, che li donò al Trinity College, alla University Library e King’s; quindi finiti all’arabista Yanuda esule negli States nel 1940 e da questi, alla di lui morte, nel 1951, allo Stato di Israele, finalmente alla University di Gerusalemme nel 1969 ( Introduzione di Maurizio Mamiani al “Trattato sull’Apocalisse”, Torino 1994, pp. VII-XLI ).

“Sì come viene ad orecchia / dolce armonia da organo, mi vene / a vista il tempo che ti s’apparecchia”( Cacciaguida chiarisce all’Alighieri nel XVII del “Paradiso”, 43-45 ). Il male “s’apparecchia”su scala europea nel 1712 ( passaggio da Federico I Hohenzollern a Federico Guglielmo I ); nel 1752 ( quando Federico II di Prussia conserva la Slesia, contro le illusioni del re di Francia, che sperimentò che volesse dire il “Battersi per il Re di Prussia”); nel 1792 con la battaglia di Valmy del 20 settembre ( definito da Wolfango Goethe “primo giorno di una nuova storia del mondo”); nel 1832 ( con la denuncia profetica di Antonio Rosmini a proposito delle “Cinque piaghe della Chiesa”); nel 1871-1872 ( con il distorto “KulturKampf”di Guglielmo I ); e nel 1944, 1984, 1994 ( ossia nelle varie tappe e fasi segnate dall’avvento dell’ “Anticristo che è in noi”, con l’ammonizione di Croce verso il totalitarismo; del linguaggio capovolto di “1984”, lunga eco di un grido d’allarme in Orwell; del cangiarsi di valori in disvalori, con il successo della ragion sofistica ).

Agevola la esegesi, nel suo prospettivismo carico di passato e gravido di futuro ( direbbe Leibniz ), proprio la vocazione calviniana a valorizzare il senso globale dell’accadimento, il prospetto combinatorio delle modalità delle città invisibili, il rapporto tra l’io e il cielo, microcosmo e macrocosmo, Dio e il dettaglio. A paragone della qual “vocazione”, quale scrigno migliore ( contenitore della sapienza dei secoli )del maniero federiciano, diadema di Puglia e teorema ( o sonetto ) di pietra ?

Alla fine, magari, il calligramma estetico di Pico, con il celebrato sonetto “Tremando ardendo, el cor preso si trova”, un dei modelli – secondo noi – per la “Primavera”di Botticelli ( e dove il ritratto di Pico è in “Castitas”, “stil”, la Grazia che si volge di spalle; “Voluptas” è “virtù”; “Pulchritudo” è “leggiadria”, nella metrica e ritmica trasposizione ); orbene, tal mirabile calligrama è il prototipo per la caratteristica dell’ultimo e geniale Calvino, sull’ “Anguilla” di Eugenio Montale: “una poesia di una sola lunghissima frase che ha la forma dell’anguilla, segue tutta la vita dell’anguilla e fa dell’anguilla un simbolo morale” ( v. “Lezioni americane”, Garzanti, Milano 1988, p. 73 ).

In “Palomar e l’enciclopedia” (1977), cinque anni dopo “Le città”: Il signor Palomar posa il volume al suo capezzale. Si addormenta. Sogna una enciclopedia da bere come un uovo fresco. Attraverso un buchino fatto con uno spillo, tira su tutto il tuorlo. No, al centro del tuorlo c’è lui stesso, come già gli avvenne prima della nascita, che divora dal di dentro il contenuto dell’uovo e del mondo”. Ecco: se la modestia non mi vietasse di comparare “magna parvis”, sono proprio i primi anni Settanta dello scorso secolo ( autobiograficamente rivisitati ) a rammentare prolegomeni urbanistici alla intensa pagina calviniana. Come non ricordare le battaglie giovanili per il vincolo nella zona di Castel del Monte: Angelo D’Attoma, “Vincolato Castel del Monte”, in “Le vie d’Italia e del mondo” ( febbraio 1970, p. 101 ); Anotonio Petrucci, “Pernix Apulia” ( Bari 1971, pp. 107-115); Bruno Zevi, “Architettura in nuce” ( Firenze 1972, p. 70). Di qualche prima, è il celebre “Pellegrino di Puglia”, ove “Castel del Monte” si fa oggetto di poesia storica, di Cesare Brandi (1960 e 1977 ). Tutto ciò confluiva, quando attraversavo la Murgia per insegnare Storia dell’arte al Liceo Classico “Cagnazzi” di Altamura ove conobbi il D’Attoma, nei primi saggi sul “Destino di Castel del Monte” ( “Nord e Sud” e “Il mondo”) e in “La provincia e l’umanità” ( Cadmo, Roma 1982 ).

“Al centro del tuorlo”, siamo noi stessi, non già per prosopoea ma per lo scavo in profondità che non può non far emergere le plurime implicazioni di testimonianza e di valore, “attractum” ( come diceva il cronista medioevale ) “labori vel industria”: ossia, velut merces industriae et lucrum laboris obvenit”.

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