“Te Lucis Ante”. Momigliano e Bassani interpreti della poesia di Dante, di Giuseppe Brescia

Momigliano“Vedi là il nostro avversaro !”, recita il canto VIII del “Purgatorio”, a proposito del male, la “biscia, / forse qual diede ad Eva il cibo amaro”, additata da Sordello ai poeti: “Tra l’erba e’ foro venìa la mala striscia, / volgendo ad or ad or  la testa, e ‘l dosso / leccando, come bestia che si liscia” ( 13-18 e 94-102 ). Sovente è “occulto come in erba l’angue”, il serpente ( Inf. VII, 84 ). Dinanzi a lui si para, nella esegesi dantesca infinita, l’alternativa  numerologia –  estetica, scienza dell’occulto e  poesia del cielo, vista come catarsi lirica epica e drammatica a un tempo ( Schelling, Eliot ). Per il primo aspetto ( la numerologia ), si è distinto lo studio di Gianroberto Sarollli a proposito delle relazioni matematiche nella sequenza di episodi e nella introduzione di personaggi e azioni nella “Divina Commedia” ( “Noterella biblica sui sette P”, in “Studi danteschi”, vol. 34, 1957, pp. 217-222; “Dante scriba di Dio”, in “Dante. Boletin de la Sociedad Argentina de estudios dantescos”, 1962, pp. 28-39; “Prolegomeni alla Divina Commedia”, Olsckhi, Firenze 1971, al capitolo 4, “Profezia e visione. Profilo d’un genere letterario”; “Struttura numerologica e Poesia”, Adriatica, Bari 1974, pp. 79 sgg, dove numero sacro è l’ 8, idea di resurrezione; “Pound and Dante Profeta”, nei “Many Gods and Many Voices. The Role of the Prophet in English and American Literature”, a cura di Louis Lohr Martz, University of Missouri Press, 1998, pp. 44 sgg. ).

Ma le sequenze numerologiche sono come “sliding doors”, porte scorrevoli e infinite ( con spunti ripresi nella stessa “Teoria della tetrade”, Andria 2002 ). La poesia del cielo, astronomica e stellare, invece rimane. “I’ mi volsi a man destra, e puosi mente / a l’altro polo, e vidi quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” ( Purg. I, 22-24 ).

Attilio Momigliano, nel suo commento, diffusamente spiega ( Sansoni, Firenze 1966, p. 263 ): “Poichè queste stelle sono quattro e illuminano la faccia di Catone (vv. 37-38), il guardiano del Purgatorio, i commentatori dicono che esse sono allegoriche e raffigurano le quattro virtù cardinali, le sole accessibili ai pagani; e poiché quelle ricordate nel canto VIII a riscontro di queste quattro sono tre ( vv. 88-93 ), dicono che quelle vedute nella valletta dei principi raffigurano le tre virtù teologali ( nota a VIII,48). Quest’identificazione poggia sul numero, e sul riscontro con XXXI, 103-8, dove delle ‘quattro belle’ è detto: ‘Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle’. Ma non si vede la ragione per cui le virtù teologali, che non compaiono sulla soglia del purgatorio, compaiono poi sulla valletta dei principi. Anche qui, come altrove, se la poesia dovette essere intrecciata con una vaga indicazione allegorica, quella sola che spicca è la poesia: lo splendore solitario delle quattro stelle che isola in una sacra oasi di luce la figura di Catone e concentra su di lui la muta solennità della notte serena, e quell’alta sosta contemplativa vigilata dalle tre stelle, che precede la silenziosa battaglia fra il serpente e gli angeli. Insomma sono questi alcuni tratti di quella poesia del cielo che, nonostante le apparenze, è più grande nel Purgatorio che nel Paradiso. Nel Purgatorio, infatti, Dante trae naturalmente l’ispirazione per i momenti in cui si affisa nel cielo, diurno o notturno, dalla sua ingenua esperienza mortale; e rende l’occulta armonia che lega la terra agli astri, e dissolve nel giro infinito dell’orizzonte le apparenze pesanti e mortificanti del nostro pianeta. Nel Paradiso è schiavo di un sistema astronomico preciso che limita il senso dell’infinito, e, per converso, stimolato all’iperbole retorica dalla soverchiante idea della smisuranza della divinità. Dante non ha compreso che il sistema tolemaico male si conciliava con l’idea dell’infinità del creato ed era poco compatibile con i rapimenti mistici. Né egli poteva evitare quest’ errore, perché la contraddizione era nella sua stessa mentalità, e in quella del medioevo scolastico, combattuto tra una tendenza simmetrica e geometrica e il sentimento dell’ineffabile infinità di Dio. Il contrasto doveva esser vinto solo dal Rinascimento che, abbattuti i limiti del sistema tolemaico, lasciava liberamente riversarsi in un universo concepito anche scientificamente come infinito la religiosa aspirazione all’infinito”.

E in Purg. II, 1-6: “Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto / lo cui meridian cerchio coverchia / Ierusalem  col suo più alto punto; / e la notte , che opposita a lui cerchia, / uscìa di Gange fuor con le bilance, / che le caggion di man quando soverchia”; il fine critico annota: “Nel Purgatorio comincia a spesseggiare la poesia dell’astronomia. I passi di questo genere, infatti, non sono puro sfoggio scientifico: e se il lettore li trova difficili, deve poi anche considerare quale ampiezza di respiro acquistino in essi le designazioni temporali, come ci si rispecchi l’immensità dei fenomeni celesti; e come questi sguardi rivolti alle rivoluzioni degli astri accrescano la solennità dell’ascesa di Dante  e ne approfondiscano il significato spirituale”.

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L’ora del tempo scandisce Purg. VI, 49 sgg: “E io: ‘Segnore, andiamo a maggior fretta, / ché già non m’affatico come dianzi, / e vedi ormai che l’ poggio l’ombra getta’ “. Dove, per il Momigliano: “Ritorna il motivo dell’ora, del sole, che nel Purgatorio ha sempre un particolare afflato poetico, come già abbiamo ricordato.. Il motivo di questo passo sarà ripreso nel canto VII e, attraverso il tramonto, la sera, la notte e le prime ore del mattino, continuato come un tema conduttore fino al sogno del canto IX e al mattino del canto X: vedi le note 42 sgg., 52-4, 58, 60, 85 del canto VII; 1 sgg., 48, 133-139 del canto VIII; 1 sgg. del canto IX; 14-16 del canto X” ( poi, XVII, 70-72; XVIII, 76-81; XXVII, 61-63 per l’ultima notte ).

Per ciò, nel VII, 43 sgg., del Purgatorio, Sordello a Dante: “Ma vedi già come dichiara il giorno, / e andar su di notte non si puote;/ però è buon pensar di bel soggiorno”. Sì che: “Comincia una scena di tramonto e di raccoglimento, con una nota silenziosa e solinga che riprende il motivo solitario del canto VI, 49 sgg. e che diventerà sinfonia nel principio dell’ VIII e nella scena della preghiera. Da essa deriva l’unità di questo e del canto seguente; con essa si accorda anche il tono con cui Sordello spiega la legge che vieta di salire di notte sul purgatorio: il silenzio si insinua qui dovunque (..) Nell’ ‘Orlando Furioso’ la costruzione è connaturata con l’ispirazione; dell’ ‘Inferno’ non si può dire altrettanto. Nel ‘Purgatorio’ le cose cambiano: la costruzione non è più sorretta da motivi geometrici, logici, concettuali, ma anche da motivi di sentimento e da un’insolita continuità di azioni. (..) Mentre l’ ‘Inferno’ era concepito prevalentemente per personaggi, il ‘Purgatorio’ è concepito prevalentemente per ambienti, per stati d’animo: nell’ ‘Inferno’ dominano tragedie singole, storie terrene: qui domina il motivo generale della vita d’oltretomba, la psicologia e l’aria del purgatorio. Perciò, anche dopo i primi nove canti continua quella contemplativa attenzione alle vicende del cielo e degli astri che accompagnano il viaggio di Dante e ne accrescono la grandiosità solitaria; e ancora quando Dante è alla fine della salita, il motivo che ha maggior rilievo è quello celeste: l’ultima notte passata sul monte, e le stelle ‘di lor solere più chiare e maggiori’ “ ( Momigliano, l. c., pp. 310-312 ).

Specialmente, ancora, all’inizio dell’ VIII: “Era già l’ora che volge il disìo / ai navicanti e ‘ntenerisce il core / lo dì ch’han detto ai dolci amici addio”, annota il nostro: “Il canto ottavo incomincia con un forte distacco dalla fine del settimo: un tema limpido e mesto si spicca d’improvviso dalla parlata grave di Sordello e allontana la storia solenne ed effimera. La luce sta per spegnersi del tutto, il giorno muore: solitario e malinconico come in terra d’esilio. Spontaneamente le impressioni della verità e del mondo s’infondono in quelle dell’oltremondo, e sull’esordio del canto aleggia una nostalgia insieme terrena e celeste, che unisce in una medesima malinconia le anime che aspirano alla patria celeste e il pellegrino che ha in cuore la lontana patria terrena. Da questa nostalgia si svolge naturalmente la figura, più aerea di un angelo, che sorge, leva le palme e guardando l’oriente intona ‘Te lucis ante’ e si trascina dietro tutto il coro delle altre anime fisse ‘alle eterne rote’ “.

“Temp’era che l’aere s’annerava” ( al v. 48 e sgg. del medesimo canto VIII ). Di fronte a Nino Visconti: “Dante ascolta affettuosamente; ma i suoi occhi stan sempre fissi al cielo: le quattro stelle del mattino sono tramontate, tre altre al loro posto splendono” ( i.e.: le teologali in luogo delle virtù cardinali ). “Sarà vero: ma noi non abbiamo bisogno di saperlo per sentire la solennità di quella notte ( suggerisce il Momigliano, pp. 320-321 ), l’attrazione del cielo stellato sul pewllegrino sacro. Dante, se anche non parla di sé, è in tutto questo canto in un atteggiamento contemplativo a cui lo inducono naturalmente la luce che scema nel silenzio e le stelle che si accendono in alto. In questo canto, più che in altri del ‘Purgatorio’,   l a   p o e s i a   v i e n e   d a l   c i e l o”.

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All’attacco stupendo del IX Canto: “La concubina di Titone antico / già s’imbiancava al balco d’oriente, / fuor delle braccia del suo dolce amico”, postilla Momigliano: “Improvviso, del tutto inaspettato questo esordio. Il tramonto è musicale, in armonia con la scena che segue; questa notte è arcana, e preannunzia il carattere del sogno che segue: c’è della dottrina, ma   s p a z i e g g i a t a    in   un’  a u r a   m a g i c a; e quella recondita scienza astronomica si accorda con l’apparenza ermetica dell’alba. Il principio del canto VIII è celeberrimo per la sua natura di poesia più accessibile; questo, è tenuto su una linea che ne fa una delle più grandiose e affascinanti aperture del ‘Purgatorio’. E’ da paragonare con l’inizio del XIX, dove ad un altro sogno mattutino è dato uno sfondo magico, dal ritmo particolarmente grave ed arcano. Con tanta poesia del cielo quanta ce n’è nel ‘Paradiso’, non si trovano in quella cantica cieli così spirituali come questi due, dove spira un soffio così largo, dove è così mirabilmente reso il segreto dell’ora, la solitudine della terra nella notte e nell’alba, quando si sente la terra circondata dallo spazio dell’universo, in segreta comunicazione con gli astri”.

Si potrebbe dir meglio, ancor oggi, per la felice caratterizzazione della “poesia del cielo” nel Purgatorio, di quanto abbia saputo il critico letterario che, dopo aver perso la cattedra per effetto dell’emanazione delle leggi razziali nel ’38, stentò a riottenerla a causa di malcelate rivalità accademiche, fondate proprio su questa siderale e sovraumana distanza di gusto e di sensibilità estetica ?

L’ultimo passo che resta in mente, di poesia celestiale o astronomica in Dante, è l’esordio del XIX, canto della femmina balba e che s’imprime così :” Ne l’ora che non può il calor diurno / intepidar più il freddo de la luna, / vinto da terra, e talor da Saturno; / quando i geomanti lor Maggior Fortuna / veggiono in oriente, innanzi a l’alba, / surger per via che poco le sta bruna; / mi venne in sogno una femmina balba, / ne gli occhi guercia, e sovra i pie’ distorta, / con le man monche, e di colore scialba”. Orbene: “Anche questo sogno, come quello del canto IX, ha uno sfondo di cielo, e anche qui sul cielo si disegna una figura da libro dei sogni: la Maggior Fortuna. Non sono, dunque, sogni comuni, ma solenni; non sogni fantastici, ma di alto significato” ( l.c., p. 403 ).

Per fronteggiare l’orrore della shoah, il tragico delle leggi razziali, per parte sua, il poeta Giorgio Bassani si volge al genio della “poesia” ( Dante, Baudelaire ) più che al belletto della “letteratura”. Da Dante ( e Momigliano gli è guida ) Bassani prende la “poesia”non la “struttura”; i toni medi e la musicalità del ‘Purgatorio’; il suono della dolcezza e il tenero ricordo degli affetti terreni. Esplicitamente, la raccolta poetica “Te Lucis Ante”, del 1947, echeggia il VII del Purgatorio: ancora prima, le “Storie dei poveri amanti”( Astrolabio, Roma 1944, di cui evocai i toni nelle “Evocazioni ferraresi e memorie storiche”del 2009, anche sulla traccia dell’amico e maestro Rosario Assunto ).

Ora si rivelano impronte di padre Dante, per l’angelo dell’ Antipurgatorio, in “Pontelagoscuro”: “Verso un borgo d’obliqui camini fumiganti, / bassi sull’erba madida della sgombra pianura, / emergi tu e ti dilegui. Vengono per l’aria scura / angeli in tuta azzurra, a sciami, in un fuoco di canti” ( cfr. le “Opere”, a cura di Roberto Cotroneo, ‘I Meridiani’, p. 1358 ).

Internamente, cita, e risente, del Baudelaire, “Il balcone”( p. 1359 ). “E ancora mostrerà dai viali odorosi e celesti / di vespero come un giovane vino l’amore. Ma sola / ti troverà se la fronte notturna t’arda, se la viola / profumi di memoria i transiti delle meste / meteore, nell’ora che più lacrima gli amanti / dimenticati e trascorsi il cielo consapevole. / Ascolterai derelitta spegnersi come una debole / minaccia il tuo sorriso nell’ombra folta di canti”. Bassani traspone Baudelaire a suoi ritmi e modi: l’amore come ‘giovane vino’; l’ “ora che più lacrima gli amanti”; il “sorriso”, “come una debole minaccia”. Mentre il poeta de “I fiori del male” canta le carezze e i baci infiniti della nutrice, l’intrecciarsi di sguardi mani e piedi nelle calde sere d’estate, o in quelle illuminate dall’ardore del carbone invernale, per  Bassani “I crisantemi”, “rammemorano la tua dolcezza. / Innocenti, di te, che ancora nei loro casti / profumi torni, sorride in lagrime la giovinezza” ( p. 1360).

E “Dopo la Sagra”: “Non resti nella piazza che un bimbo, che al nembo lontano / turchino e obliquo sopra le piccole fattorie luminose / della piana sorrida, e distacchi dalla torre bruna le rose, / dolci campane immense con l’esile addio della sua mano” ( p. 1362 ). “Verso Ferrara” ( p. 1363 ): “Dai finestrini aperti l’alcool delle marcite / entra un po’ a velare il lustro delle povere panche. / Dei poveri amanti in maglia scioglie le dita stanche, / fa deserte di baci le labbra inaridite”.

Con la malinconia della “Sera a Porta Reno”: “Io solo di qua dai vecchi archi le assorte, / grame tovaglie a numerare. Ma laggiù i gentili / zingari fanno il fuoco, caldi da puerili / bocche van canti, si alza adagio dagli aeroporti / ancora azzurri l’ombra, annotta, e un dolce vento / porta con sé i motori, li sperde nel firmamento”( ibid. ). Altro che “aridità” del cuore, giusta la tesi di qualche 

critico ‘intempestivo’ ! E “Chiaro di luna”: “Fuori porta è una brina / ma calda, così in pace / schiarando morta e mite / le sonore e infinite / strade della campagna, / così semplice, calma, / questa luna che bagna / dolcemente la salma / della contrada scura, / spegne rulli lontani / di carri, doma i cani / persi nella pianura..” ( p. 1364 ).

Con la “Variazione sul tema precedente”: “Calma e chiara è la notte, dal madore dei prati / sale un latte leggero che ondeggia a soffi leni / di vento, si ode a tratti la cieca ansia dei treni / lontani che precipitano verso i folti mercati. / Ma tu, dio che sorridi al profitto e alla perdita, / incanta lungo il cammino i tuoi neri protetti, / lungo il dolce cammino che sfiora i campi già verdi !” ( p. 1365 ). Bassani dialoga col vento e con la luna, a “Monselice” ( p. 1366 ). “A Monselice il vento va / sempre come dal mare. / Gira il treno al largo, non sa / forse come approdare. / Monselice, colle celeste, / fronte pura e lontana, / ricordo di te fra le meste / casupole una fontana. / A Monselice anche di giugno / la primavera non è senza nebbie. / Con foglie e foglie l’autunno. / L’inverno è tutta una sera. / Ma l’estate i tigli lungo il rettifilo / per Ferrara ? Al loro quieto / stormire la luna mi amava, / quand’ero ragazzo, in segreto”.

Come è noto, anche Baudelaire ha tracciato la poesia del cielo, come anelito e bisogno di infinito ( “notre infini” ), oltre ogni peso di erudizione alchemica. Nel “Balcone”, appunto: “Come dal mare, giovani e stillanti, al confine / celeste i soli tornano dopo una lunga eclissi ?”( ‘comme montant au ciel les soleil rajeunis / après s’etre lavès au fond des mers profondes ?’: versione del Bufalino, Milano 1983, p. 69 ). O in “Paesaggio”: “Voglio come gli astrologi dormir vicino al cielo” (‘Je veux.. coucher auprès du ciel, comme les astrologues’ ), aspirando a “cieli alti che insegnano l’eterno e l’infinito” ( ‘les grand ciel qui font rever d’ eternité’: da me riadottato in “Pico Botticelli e Schifanoia. Ipotesi e problemi di ermeneutica filosofica”, in “Ipotesi su Pico”, Bari 2011, pp. 79 sgg. ). Persino vi alludono gli occhi della donna, in XXI.”Hymne a la Beauté”( ‘Tu contiens dans ton oeil le couchant et l’aurore’: “Hai dentro gli occhi l’alba e l’occaso”, vv. 42-43; “Sorgi dal nero baratro o discendi dagli astri ?”)ed in V. “Femmes damnés. Delphine et Hippolyte”(p. 277: ‘Tourne vers moi tes yeux plens d’azur et d’étoiles’, come “Volgimi il viso e gli occhi, colmi d’astri celesti” ), riflettendo – da moderna donna angelicata – il firmamento.

Pathos e umana pietà – per tornare al Bassani – incantano nelle “Storie dei poveri amanti”, che penetrano nelle pieghe anfrattuose del dolore, per il “bambino mai nato” ( op. cit., pp. 1367-1369 ). “Il giovane che conoscemmo / con la fosca pelliccia dal bavero rialzato, / e quel volto pallido, smagrato, e quegli occhi, / quegli occhi così simili alla luna che ami; / quel giovane che ci passò accanto in una / notte invernale umida e tiepida; / che sorrideva alla gomma dei suoi passi senza rumore /( che impensabile sorriso sotto la tesa del cappello !)/ .. e aveva dita e saliva ed occhi e sorriso di luna / sotto la tesa del cappello; e per la neve pelliccia: oh luna, / m’ha inseguito fin qua col coltello degli occhi, ha voluto, luna, che ti chiamassi / con l’amoroso flauto delle memorie, luna di queste notti”.

Bassani ( maestro Dante, e dopo di lui Baudelaire ) fa parlare i silenzi, il giovane che passa accanto, i passi senza rumore, l’incantamento della luna e l’ “amoroso flauto delle memorie” ( con eco leopardiana e dalle “Grazie” foscoliane, per “e molle il flauto si duole”, illuminato da Mario Fubini in “Ortis e Didimo”).

E parla, emblematicamente, il bimbo mai nato. “Quel nostro bambino non nato / che ci guardò derelitto / con i suoi occhi d’aria, zitto, / ma che spesso si lamenta / adesso, agitando il braccino / spezzato, da una sua spenta / primavera lontana e solitaria, / il suo pianto come un belato, / esitando lieve nel vento..”

Ancora; “gli anni passati, questa sorte / di non avere vissuto, / il loro sapore di morte: / tutto abbiamo riconosciuto / con la voce dolente / del nostro bimbo remoto, / nuda al vento del prato, / presente, assente, nel vuoto / arido ed innocente / d’un suo limbo diseredato”.

Certo, dopo la Shoah e le deportazioni senza ritorni, Bassani fa vivere – con accenti specialissimi – e trepidare bambini mai nati, defunte spoglie, con “pietosa”, rinnovellata, “insania”, Evoca la “dolcezza”, sintesi percettiva e affettiva del “flauto delle memorie” ( da Dante ai moderni ). Ed evoca i defunti ( vivi nei “Fleurs du mal” di Charles Baudelaire ). Così, alla fine di “Storie dei poveri amanti”: …”le sospirose labbra, le braccia, le lanugini bionde, / dolci, così dolci agli addii le mattine d’aprile; / addormentarsi, svegliarsi; sognare; alla fronte / battere il palmo; ridere; piangere; chiamarsi vile / ed eroe; ma attendere, non aver fretta, marcisser / le cose in me, sospese, prossime a una caduta../ Per te, o poesia, così consumandomi vissi. / Così, vita, mia povera vita, mai t’ho vissuta”. Dove si noti il sapiente e ripetuto giuoco di ‘enjambements’, ossimori, richiami interni.

Notevolmente, nella “archetipale” ‘Cena di Pasqua’, presagio del momento culminante del “Giardino” ( in “Opere”, pp. 1370-1371 ), Bassani evoca: “forse torneremo di sopra, in sala, seduti qua attorno al /tavolo, sotto la lampada, commensali distratti, / fermi, le labbra sigillate, pallidi di contro ai pallidi / ritratti dei nostri morti, morti anche noi, ma soli”.

Qui, ancora, il canto C della edizione 1858 di “Les fleurs du mal”, “La servant au grand coeur” ( per Mariette ), che strutturalmente ripiglia il canto 36 ( per la stessa nutrice ), il 44 e 47 ( per Madame Sabatier ) e il 62 ( dedicato ad Agata ), alla intensa ricerca della “dolcezza”, poeticamente annoda il débito di portar fiori a Mariette con la intuizione del profondo, segreto, dolore dei defunti, il vento malinconico d’autunno e le gocce della neve invernale, con il loro rimprovero nascosto, e pur parlante, per la umana ingratitudine. E così via, di profondità in profondità dell’anima, anzi nel muto dialogo delle anime dei vivi con quelle dei morti. “La serva dal gran cuore, di cui eri gelosa, / ora che sotto un umile ciuffo d’erba riposa.. / ebbene, le dovremmo portare un po’ di fiori. / I morti, ahimé, ne soffrono, di triboli e dolori”.“L’ autore di questi versi – ho potuto notare – è il genio che molto ha sofferto e molto ha capito del dramma dell’anima, visto nel gioco della reciprocità affettiva” ( postilla de “La douceur chez Baudelaire”, ne “Il vivente originario”, Albatros, Milano 2013, Parte II. Percorsi e postille, pp. 135-141 ). Donde, per “vie des formes” personali, deriva anche la poesia di Bassani. Ma, prima, sussiste la “vie des formes” ( o, se più piace: la serie di “formes de vie”) da Dante a Baudelaire, a Bassani, su cui conviene sostare. Ad esempio, il rapporto Madame Sabatier – Baudelaire è visto come ‘traslatio’ del rapporto Beatrice – Dante nella “Vita Nova”, da Roberto Calasso ( “La folie Baudelaire”, Milano 2011, p. 82). “Traccia vibrante di infanzia” è in Charles che confida: “Quando faccio una grossa sciocchezza, mi dico: Dio mio ! Se lei lo sapesse !”

Dove il riferimento intrinseco è alle sette poesie dei “Fiori del male” dedicate “A’ celle qui est trop gaie”. Ma transita specialmente per la ennesima mediazione dell’ammirato Eugene Delacroix, nel cui profilo critico il modello insuperato della “aemulatio” è affidato a Dante e Shakespeare insieme ( “Opere”, a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano, Milano 2012, pp. 1023-1031, 1034-1037, 1182, 1212 e 1234 ). “Nessun quadro, a mio avviso, rivela l’avvenire di un grande pittore, più di quello di Delacroix che raffigura ‘Dante et Virgile aux enfers’… Dante e Virgilio, guidati da Caronte, attraversano il fiume infernale e fendono a fatica la calca che si pigia attorno alla barca per salirvi sopra. Dante, come essere ancora vivente, ha l’incarnato orrido dei luoghi; Virgilio, con una corona di un cupo alloro, ha i colori della morte” ( “Salon del 1846” ). – “Ma veniamo all’esame di qualità ancora più generali. Fra i caratteri principali del grande pittore vi è quello dell’universalità; per cui il poeta epico, Omero o Dante, compone altrettanto bene un idillio, un racconto, un discorso, una descrizione, un’ode, ecc. E. Delacroix è universale”. Del canto IV dell’ Inferno ( op. cit., pp. 1034-35 e nota ), Baudelaire porge la “traduzione di Pier Angelo Fiorentino, la sola buona per i poeti e i letterati che non sanno l’italiano”. – Che è la traduzione in francese offerta intorno al 1840  da Pier Angelo Fiorentino, collaboratore fraterno di Baudelaire al “Corsaire – Satan”, rimasto a lui amico anche dopo il 1846 ( v. P. P. Trompeo, “Da Virgilio a Baudelaire”, in “La Cultura”, del settembre 1933; G. Macchia, “Baudelaire critico”, Sansoni, Firenze 1939; e A. Prete, “Damnata Beatrix. La ‘Commedia’ e ‘Les Fleurs du mal’. Un’allegoria d’autunno. Baudelaire e Benjamin”, ne “Il demone dell’analogia”, Feltrinelli, Milano 1986 ).

Ancora nella “Esposizione universale del 1855 – Belle Arti”, Delacroix”non solo ha tradotto, frequentato Ariosto, Byron, Dante, Walter Scott, Shakespeare”; ma con lui la pittura “è giunta a rivelare idee di un ordine più elevato, più sottili e più profonde di quasi tutti i moderni”. Nel “Salon del 1859; La vita e l’opera di E. Delacroix”, “Delacroix è stato il traduttore appassionante di Shakespeare, di Dante, di Byron e dell’Ariosto. Una somiglianza di qualche peso; una differenza di poco conto.. Delacroix era appassionatamente innamorato della passione, e freddamente risoluto a cercare i mezzi di esprimere la passione nel modo più visibile.. i due segni che contraddistinguono i geni più robusti”( “Opere”, pp 1324 sgg. ). Quello che irritava i contemporanei di Baudelaire, “il miscuglio di nobiltà e bassezza che dai temi delle poesie si scaricava fin dentro le loro strutture linguistiche” ( Giuseppe Montesano, alle pp. 5-15 della “Introduzione” alle “Opere” ), trattiene un che di “dantesco”, il “lascia pur grattar dov’ è la rogna”e, mutato il dovuto, esattamente la ricerca della “dolcezza”, forma “mediana” della universale visione che attraversa le tre cantiche.

Tutto ciò anche, con lieta sorpresa, si riflette nel pensiero poetante di Giorgio Bassani. Sulla linea Dante – Baudelaire – Momigliano dei toni medie della umana pietà, Bassani si sorprende con lieto animo: “Sono riuscito a avere un certo numero di libri, perfino un libro di Momigliano, e li vado dividendo lungo tutte le ore”( “Da una prigione”. Prima sezione della raccolta di prose “Di là dal cuore”, nelle “Opere”, ed. Cotroneo, 1998, cit., p. 950 ). E sul Momigliano Bassani torna nel saggio “Manzoni e Porta”, Sezione ‘1940-1950’, in “Di là dal cuore” (ibid., pp. 1002-1003): “La pietà” dice bene il Momigliano, “più che scaturire direttamente dal modo come è ritratto Giovanin, deriva indirettamente dalla rappresentazione della prepotenza dei Francesi, fieramente condannata dalla storia di questo popolano a cui un soldato chiede sfacciatamente la moglie, un lumaio la pizzicotta, un ispettore di polizia fa giustizia imprigionandolo, e lo sbirro che lo ha incatenato domanda la mancia”( tutto il passo è dal saggio su Porta, in “Introduzione ai poeti”, Sansoni, Firenze 1946 ).

Attraverso Momigliano, campeggia la poesia dell’Alighieri. Quanto Dante si riflette nella poetica della “mezza luce”, dei toni medi, della libera contrada ( fino a Leopardi, Baudelaire, Bassani, Heidegger ) !

“Dolce color d’ oriental zaffiro, / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo puro insino al primo giro, / alli occhi miei ricominciò diletto..” ( Purg. I, 13-16 ). “L’alba vinceva l’ora mattutina / che fuggia innanzi, sì che di lontano / conobbi il tremolar della marina. / Noi andavam per lo solingo piano, / com’om che torna alla perduta strada, / che ‘nfino ad essa li pare ire invano. / Quando noi fummo là ‘ve la rugiada / pugna col sole, e, per essere in parte / dove adorezza, poco si dirada; / ambo le mani in su l’erbetta sparte / soavemente ‘l mio maestro pose” ( I, 115-125 ).

Martin Heidegger, ad esempio, oltre ai saggi su “La cosa” ( in “Saggi e discorsi”, ed. Vattimo, Milano 1976 ), “In cammino verso il linguaggio” ( ed. Caracciolo, Milano 1973, 127-171 ) e  “L’origine dell’opera d’arte” ( nei “Sentieri interrotti”, ed. Chiodi degli “Holzwege”, Firenze 1969, 3-69 ), dimostra di coltivare la poesia come dimensione della “Lichtung”, la “mezza luce” della libera vastità della “contrada”, o della “radura”, che ha il compito di “metterci nel bel mezzo della verità” ( dirà poi l’altro ideal “dantista” Eugenio Montale, così attento ai momenti del “dis-velamento” dell’essere, ‘a-letheia’ ).

La “radura”, infatti, non è né del tutto “rada” né del tutto folta o impraticabile. E’, piuttosto, “mezza luce”, relazione dialettica di finito e infinito, aperto e chiuso, particolarità e totalità. E leggendo Rainer Maria Rilke, Heidegger precisa: “Ciò che Rilke intende per Aperto, è proprio il Chiuso, il non illuminato, ciò che procede nel non-limitato, e quindi ciò che non può incontrare né il disabituale né qualsiasi altra cosa. Infatti dove qualcosa viene incontro, lì appare anche il   l i m i t e. Dove c’è limitazione, lì il limitato viene risospinto in se stesso e così ripiegato su se stesso. La limitazione distorce, ostacolo il rapporto all’ Aperto, e rende questo rapporto qualcosa di riflesso” ( “Sentieri interrotti”, ed. cit., pp. 262 sgg: sull’interesse della dottrina della ‘Lichtung’, si soffermano Gianni Vattimo, “La fine della modernità”, Milano 1985, 73 sgg. e 134; Leonardo Amoroso, ne “Il pensiero debole”, Milano 1986, 137-163 ).

Ora, codesti vari fili ermeneutici ( sempre con epigrafe dantesca, dal Purgatorio II, 10-12, riaddotti nel mio saggio “Wegdenken”. ‘Ricomposizioni su Nietzsche e Heidegger’, Bari 1988 ), si focalizzano di bel nuovo, tornando a Bassani autentico poeta. “Te lucis ante” esordisce con il sospiro della ‘dolcezza’ “Dal carcere”: “Dalle torri di Ferrara / vola ormai la dolce luce, / ma a una grata nera, avara, / chi ti volge, chi ti induce / o carezza della sera ?” ( in “Opere”, cit., pp. 1381-1382 ).

Nel primo canto, quinta strofa: “Un ultimo segnale. / forse l’estremo avviso, / mi folgorò per nere / scale impresso in un viso. / O forse il giusto, il santo /   a n g e l o  trafelato, / sorgeva a me, placato / per assolvermi accanto”. Qui, dopo la eco dell’angelo dantesco, alla strofa nona, è l’eco della  “ t e n e r a   l u c e”. “Pur se m’eri vicino, / niente io seppi di te. / Fui ebbro del tuo vino / al primo sorso…Or se / dal mio nuovo, profondo / carcere, da questa notte, a ignote, calde bocche ( ed è tardi ) rispondo, / se, morto, ancor mi rende / al dolore, oh questa / io benedico tenera / luce che mi ridesta”. Subentrano chiare immagini leopardiane o foscoliane, dal sonetto mirabile “In morte del fratello Giovanni”, alla strofa undecima: “E voi, labbra ch’io volli / mute per sempre; palme / in eterno deluse; / e confidenti, illuse, / voi, palpebre consumate…” – O alla dodicesima: “Forse.. O a segreto pegno / per aprirci il tuo regno, / la tua festa immortale ?”

Ma ogni eco mito-poietica si risolve nella musa dell’umana pietà ( strofa 15^): “D’oltre il passo del vento / chi ci risponderà ? / Il tuo lamento, il mio, chi mai raccoglierà ? / Chiuso amore e restio, / da distante pietà !/ Scegliere: e chi vorrà, / se cade anche il brusìo / del tempo nei pianori / dove non miete sguardo ?/ Ma i cieli, il cieli, se ardono / fra teneri vapori / di viola in rosse frange, / chi, escluso, con la gola / arida, li vedrà / spegnersi senza piangere ?” ( “Opere”, pp. 1383-1391 ).

Il “chiuso amore e restìo” di Bassani spinge – in virtù della pietà – verso “i cieli, i cieli” – “Come la verità, / come essa triste e bella, / proprio com’ è la vita..” ( strofa 16^, p. 1392 ).

Sì che si potrebbe dire che ogni poesia, anche “terrestre” o con il vivo “senso del terrestre”, per virtù della dialettica delle passioni che l’alimenta e tormenta e purifica, o è “celestiale”, o non è. Solo parenteticamente annotando che l’infinito nello stesso Baudelaire dei “Fiori del male” e “Confiteor dell’artista” ( il terzo poema in prosa dello “Spleen di Parigi” ), è anche “Annegare il proprio sguardo nell’immensità del cielo e della terra”, “solitudine, silenzio, incomparabile   c a s t i t à   d e l l’  a z z u r r o”. E nella moderna nozione del “duello”, è così da recuperare il senso dialettico del “sublime” che – kantianamente – a un tempo sgomenta ed attrae, meglio ancora della tensione della “ferita” e del “fallimento” ( su cui, P. Citati, “L’infinito di Baudelaire è un duello con la natura”, nel “Corriere della sera” del 1° agosto 2013 ).

D’altra parte, ancora per riprova, dove il “duello” è “lotta contro i demoni” ( ad es. gli aguzzini, la psicopolizia, la “corretta brutalità” del lavaggio del cervello ai danni di Rubasciov ), come accade in “Darkness at Noon” ( “Buio a Mezzogiorno”, 1940 ) di Arthur Koestler, l’infinito o il celestiale assume il disegno di “senso oceanico” o si riappropria del “sogno astronomico” ( fino a “Il commissario e lo Yogi” del medesimo testimone e scrittore ungherese ).

Così, il percorso poetico di “Te lucis ante” si intensifica e approfondisce nell’ultima ‘sezione’, sul “cuore”. “Vide cor meum: ‘vide cor meum’. Tu, chiami ? Oh il cuore, il cuore, niente / altro di me ( tu, cerchi ?) ti specchia dal profondo. / Dunque toccami il cuore; gli occhi no, non la mente, / non il labbro insolente dietro cui mi nascondo”

Sembra sempre alternare, Bassani, squarci lirici o sublimi e approcci cotidiani, dimessi, prosatici: ma solo in quanto quest’ultimi – anche – restituiscano i riflessi interpersonali, le supposizioni o aspettative di relazioni, magari spesso a guisa del dantesco “io credo ch’ei credesse ch’io credessi” ( detto questa volta, nell’Inferno, per Pier delle Vigne, ma suggerito esemplarmente ). Ma il tema del “cuore”, “che sa il cuore”, da Manzoni al “Giardino dei Finzi Contini”, torna ne “Il velo di fiamma”, alla inesausta ricerca di “dolcezza”, e “schianto”.

“Gloria che risponde a ogni cosa creata, e in sé chiusa la serba, oh polvere infinita; coltre immensa d’oblio entro cui, effusa, si riposa ogni forma, torna buia ogni vita; // lume, ombra, da te, ma più il pianto, più il riso, che ribelle al suo tempo ( è dolcezza, è schianto !) alza in me l’improvviso suo dolente diaframma, questo è il velo di fiamma che da te mi separa”.

Si tratta – a mio avviso – di un vertice poetico altissimo, dove il “vitale” è visto come “coltre immensa d’oblio”, archetipale “regno delle madri”, ove “si riposa ogni forma, torna buia ogni vita”. E con gioco ossimorico di stile “caravaggesco” ( vedasi l’analisi svolta per la RAI dal Bassani a proposito della messinese “Resurrezione di Lazzaro”: “Il caro, il dolce, il ‘pio’ passato”, Bari 2011 ), luce e ombra, luce nell’ombra e ombra nella luce ( come il riso e il pianto, dolcezza e trauma ) si intessono e s’intridono intimamente, nel “velo di fiamma”. La dizione è anche probabile eco del didimèo “calore di fiamma lontana”; ma, certo, ancor prima, del dantesco “squilla di lontano”, e del dolce colloquio con le care ombre ( il ‘padre’ ).

Vedete “Sera a Montesacro”: “Un vento umano, un alito, entra negli oleandri, / la sera nel giardino, il sonno nei tuoi pianti. / Di là da queste lacrime, luminosa e improvvisa, / ti apparirà una terra da dolci piogge intrisa ?” E l’ “Angelus”: “Bei colori del giorno, odiarvi, ora, che vale ? / E te, se ormai dagli occhi fuggi senza ritorno, / luce estrema dell’angelus, che il mondo arreso adora ? / Dunque addio e addio ancora, d o l c e    s q u i l l a    s e r a l e”.

La dolcezza è, per dir così, sognata in “L’alba ai vetri”; “I fiori”; “Stella”. “L’alba ai vetri, e la musica d’un piffero e un tamburo / udivo, là, la sua opaca, un po’ ebbra allegria. / Non eri tu che tornavi, vita, tu, vita mia, / tu che sopravvenivi, innocente futuro ? / ‘Empio evo venturo che premi dalle porte’, / dissi io allora con lacrime più soavi che amare, / ‘dimentica il mio nome !’ Dicevo. E già, o morte, / già mi riassonnava l’esile inno tuo militare”. Dove allitterazioni (‘tu.. tornavi, vita, tu, vita mia’ ); giochi ossimorici ( ‘lacrime più soavi che amare’); trasparenza del futuro, o ‘innocente futuro”, tralucono in un impasto sapiente di toni aulici ( ‘riassonnava’ ) e ‘sermo cotidianus’, rendendo bene il momento dell’attesa, la trepidante speranza nell’ “alba ai vetri” ( chi non ricorda Rodolfo Wilcock e il suo “vetro appannato” nelle poesie per il figlio ? ).

Mentre ne “I fiori”: “Non va più dolce, più santo incenso, / grazie più umile al cielo immenso / del vostro, o fiori. Oh bocche miti ! / Oh lieti, unanimi sguardi infiniti !”

E in “Stella”: “Non tanto è fitta la nebbia / che tu non splenda dolcemente / sull’erba madida, sulle lente / mie lacrime, lontana stella”. Qui, a prevalere, è il tono medio, ‘purgatoriale’, della nebbia non troppo fitta, sì da riflettere lo splendore ‘dolce’ di lontana stella, e dell’erbetta ‘madida’, di memoria dantesca e anticipazione epifanica.

Così come l’episodio dell’abbraccio Sordello / Virgilio regge nella poetica visione, in “Sogno”, del padre. “Ho visto in sogno mio padre: ‘Tu qui ?’ / Timido e triste rideva: ‘Non vieni ?’ / O rive, o infanzia, o frangenti sereni, / voi tornavate, nel calante dì ? / Tutto tornava. Eppure vano, oh fu, al nembo che vi spense, onde fulgenti,/ contendere e alla rena i lievi, argentei / suoi capelli, e all’oblìo più che un sospiro” ( cfr. “Opere”, pp. 1395-1401 ). Tutto è trepidazione sospensiva e commossa, nella poesia del Bassani, fino ancora “A mio padre”; “Qualche volta”; “Commiato”. “Scordami qui, disteso coi più vecchi, assopito / nel campo tutto arreso a uno sguardo infinito”.

A presidiare dai demoni l’anima che tanti sarebbero disposti a vendersi, dice Bassani in ripetute interviste o dichiarazioni di poetica d’esser soprattutto, orgogliosamente,  “poeta”. La tenerezza degli affetti, la malinconia, la pietà sono le sue note dantesche dominanti. E dà seguito, in ciò, a un altro “dantista” spirituale, all’auspicio di Eugenio Montale in “Parole di poeti” ( sul “Mondo” di Alessandro Bonsanti, del 1° dicembre 1945; poi “I miei scritti sul Mondo. Da Bonsanti a Pannunzio”, Quaderni della “Nuova Antologia”, IX, 1981, 54-58 ). “In questo senso Bassani dovrà confermarci che nessuna prosa di domani potrà uccidere in lui quel fresco senso di poesia che le sue pagine d’oggi suggeriscono già in parte”. In effetti: “Tra i primi due libri di poesie, ‘Storie dei poveri amanti’ e ‘Te lucis ante’, e gli ultimi due, ‘Epitaffio’ e ‘In gran segreto’, sono passati vent’anni. In quell’arco di tempo ho scritto i romanzi” ( Intervista a Ennio Cavalli, “Dei paesi tuoi”, Maggioli, Rimini 1986: cfr. il mio “Montale tiene a battesimo Bassani”, su “andrialive” del 19 dicembre 2012 ).

 

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