“Messa da Requiem” K626, di Giuseppe Brescia

musicaIl tragico nel “Don Giovanni”; la coralità che assorbe e scavalca i singoli personaggi in “Così fan tutte”; l’iniziazione e i suoi misteri nel “Flauto magico”; la delicatezza del sentimento, non fredda ma distesa e filtrata in tutta la sua trama e nel gioco delle rispondenze, per “La clemenza di Tito”; la sintesi complessa e sempre innovantesi della musica sacra. Per ogni dove, si avverte in Mozart la “variopinta scena del sentimento e della fantasia” ( espressione adottata a ben altro riguardo sul finire dell’ Ottocento da Benedetto Croce nel processo di revisione del materialismo storico, attingendo al nettare d’ambrosia che si schiudeva una volta per sempre dalla poesia di Shakespeare o dalle pieghe del secentismo, dal mondo fantastico e passionale e dall’ “interessante in arte” ).

In trasparenza teoretica, la trama o variopinta scena del sentimento postula la tessitura di successione – simultaneità – permanenza, operante nel nuovo conferimento di senso alla classica dottrina aristotelica della catarsi, espressa nel momento culminante del dramma. Pure, l’assioma estetico conosce modulazioni sempre nuove in Mozart.

“Papà, non si deve preoccupare, perché Dio mi è sempre dinanzi agli occhi. Mi rendo conto della Sua onnipotenza e temo la Sua collera: ma comprendo anche il Suo amore e la Sua tenerezza verso le Sue creature. Egli non abbandonerà mai i suoi figli. Sia fatta la Sua volontà. Così tutto andrà bene ed io non potrò essere che felice e soddisfatto”.

Così, il 4 febbraio 1778 Wolfgang Amadeus rassicura il padre, con una fusione di ortodossia religiosa e biblica sapienza ( dal Salmo 144 – 9 ), cui non sono estranee né la critica del fariseismo né l’influenza massonica, fino a censurare l’amico Wendling, certo “uomo dabbene, ottima persona ma purtroppo senza religione”. E assevera il giovane Mozart: “Amici senza religione non sono amici che restano”. La nota velata di amarezza si soffonde, e in parte attenua, alla morte dell’amata madre, inducendo lucide riflessioni sull’ineluttabile approdo della morte. “Poiché la morte ( a ben guardare ) è l’ultimo, vero fine della nostra vita, da qualche anno sono entrato in tanta familiarità con quest’amica sincera e carissima dell’uomo, che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante !” ( 3 luglio 1778 ). Dove, nell’amico geniale delle poetiche italiane, par quasi di sentire Leopardi degli estremi Canti o dello Zibaldone ( non escludendo le indipendenti assonanze con il mirabile sonetto foscoliano “Alla sera”: “Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago A me sì cara vieni, o Sera” ).

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Successivamente, Mozart s’inizia alla loggia viennese della Massoneria, fors’anche per ragioni economiche, il 14 dicembre 1784, nei tempi della ideazione del “Ratto del serraglio” e delle “Nozze di Figaro”, lungo un percorso che lo porta a concepire le tante sonate massoniche e specialmente “Il flauto magico” dell’estremo 1791. I valori della saggezza individuale e della fratellanza universale entrano, così, spontaneamente in una sintesi vertiginosa, che esplora la tensione spirituale verso l’alto, lo slancio “dalla terra al cielo”, o anche dal “vitale” al “sacro”.

Secondo alcuni interpreti, nell’ “Introitus” della “Messa da Requiem”, lo spettrale e leopardiano “Coro dei morti” ( animato dai corni di bassetto e fagotti ) è anche debitore delle “armonie” delle fonti cerimoniali massoniche: senza escluderne il miracolo della sognata “dolcezza”, della “sublime malinconia”, sintesi delle sintesi dal punto di vista estetico ed epistemico ( cfr. Giovanni Carli Ballola, “Dalla terra al cielo”, in “Amadeus”, XI/4, ottobre 2001, pp. 4-11 ).

Certo, oltre la mitologia dell’ “uomo nero”, che era poi il conte committente Franz von Walsegg ( mitologia affermatasi già con la stendhaliana “Vita di Mozart”, ripresa ed ampliata nel dramma “Mozart e Salieri” di Alexander Puskin e cineticamente narrata nell’ “Amadeus” 1984 di Milos Forman ), la tensione verso il sacro è sempre presente nell’opera di Mozart: dall’angelico “Alma Dei Creatoris” K 272a all’intenso “Sancta Maria” K 273, dalla “Missa (brevis ) in do maggiore” K 220 del 1776 alla “Grande Messa in do minore” K 427 del 1783 sino all’ “Ave verum corpus” K 618 e ai testi incompiuti ma non frammentari ( un poco come per “Le Grazie” – diceva Luigi Russo – di Ugo Foscolo ) degli ultimi anni.

 

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brescia“Non di solo Requiem. I volti del Mozart sacro” ( accerta Raffaele Mellace, “Mozart Opere sacre”. Guida all’ascolto, dello speciale “Amadeus”, nella direzione del 1976 di Herbert von Karajan ). Ma la “Messa da Requiem” è entrata nel Mondo 3 del sapere per sempre, con le integrazioni sollecitate dalla vedova Constance per opera dei discepoli Eybler e Sussmayer ( anche se il primo di essi rinunciò in parte all’incarico ), fin dalla esecuzione a “Les Invalides”, il 15 dicembre 1840, per il rimpatrio delle ceneri di Napoleone Bonaparte ed alla “Madeleine”, il 1849, per i funerali di Federico Chopin.L’ “Introitus”e il “Kyrie”, sicuramente completati dall’autore, si aprono con la straordinaria potenza di archi, corni di bassetto, fagotti ( già adottati in “Clemenza di Tito” e “Flauto magico” dello stesso 1791 nonché nella “Musica funebre massonica” K 477 del 1785 ): potenza cui collabora magistralmente la voce da soprano. La II^ Sequenza, il “Dies Irae”, si forma per fortemente ritmata e incalzante, con grande apporto del coro e collegandosi all’effetto degli archi: dove forse non è del tutto “mozartiana”, ma ricostruita dall’interprete, la fanfara delle trombe. La III^ Sequenza, “Tuba mirum”, interponendo voci del tenore e basso, libera un canto sovrano e dominante, che si scioglie poi in dolce elegia dal ritmo lento e pauseggiato ( intervenendo la voce del soprano ). Queste sequenze, come alcune delle successive, la IV^ la V^ e la VI^, eran complete nelle parti vocali e solo abbozzate nelle strumentali. La IV^ Sequenza, in specie, “Rex tremendae”, “terrificante visione dell’ aldilà”, si apre con un forte “urlo””Rex”, quattro volte ripetuto e potentemente scandito da trombe, tromboni e timpani. Solo nel finale, l’inno si scioglie in “canto commosso ed estatico”, atto a ben esprimere il sentimento dominante mozartiano della morte “amica dell’uomo”.Mentre la V^ Sequenza, “ R e c o r d a r e”, concentra in sé “amore, soavità, commozione, pietas”, sentimenti e toni lirici esposti dai corni di bassetto in apertura, fagotti e archi a seguitare: indugiando mirabilmente nel duetto lento di soprano e del basso. Ermeneuticamente, per noi ultimogeniti della modernità, è la parte che meglio incorpora la “modalità” etico-estetica della “pietas”ntimento e tempo si fondono allargandosi come per onde concentriche e successive. La VI^ Sequenza, “Confutatis” si caratterizza per l’attacco veemente di trombe e tromboni, cui s’alternano la voce elegiaca del soprano e l’esile coro di fondo con i tocchi leggeri degli archi. Nella perenne “vita delle forme”, è come se il soggetto dei dannati ( “Confutatis maledictis” )stia per esser trattato non tanto , o non soltanto, con accenti “infernali” ma, al contempo, da “Purgatorio” dantesco ( ove coralità e musicalità leggera ritengono un ruolo e tono “medio”, ben notava il grande Attilio Momigliano ).

La VII^ Sequenza, “Lacrimosa”, che si arrestava effettivamente alla ottava battuta, con le parole “ Qua resurgiet ex favilla, judicandus homo reus”, si svolge poi con ripetuta acclamazione e attinge vertici sinfonici, totali, avvolgenti nelle parti centrale finale ricostruite, ancora come in “unda superveniens undam”.

Le parti I e II dell’ “Offertorio”, rispettivamente VIII e IX Sequenza ( “Domine Jesu”e “Hostias”), nel primo originale incompiuto esistenti solo come traccia generale, sono più vicine e aderenti al “rigore della tradizione liturgica”: con chiusura e successiva ripresa della fuga canonica “Quam olim Abrahae” ( cfr. H. Albert, “Wolfgang Amadeus Mozart”, 2 voll., Leipzig 1919-1921: trad. it. Di B. Porena e I. Cappelli, Il Saggiatore, Milano 1984-1986 ).

Infine, veramenti assenti erano il “Sanctus”, il “Benedictus” e l’”Agnus Dei – Communio”( ma il Sussmayr applicò sul manoscritto le parti desunte da appunti, “interpretando” con efficace “colpo d’audacia”il coronamento della sublime “Messa”e affidandolo, così, alla tradizione ). Inno veemente, il “Sanctus”. Più cantabile e dolente il “Benedictus”, ove si nota il canto dei violini e del quartetto vocale, sino alla profonda scansione dei tromboni di fondo e alla maestosità totale della fine. Da ultimo, la sintesi dell’ “Agnus Dei”si avvale della grande potenza del coro iniziale, attraversa poi la “dolcezza” e si conclude diventando “estasi”( “Lux eterna” e “Cum sanctis tuis”).

Il fine critico pressocché coevo Bernhardt Paumgartner concludeva: “Passo a passo Mozart aveva ricondotto la propria arte, nata dalla ingenua galanteria dei preclassici, alla potenza e alla profondità di sentire degli antichi maestri classici, raggiungendo un perfetto equilibrio tra profondità di pensiero e compiutezza architettonica in senso  assolutamente  p e r s o n a l e   e  m o d e r n o”.

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