Per Riccardo Bacchelli, ‘rondista’ e ‘crociano’ ( Bologna 1891-1985), di Giuseppe Brescia.

Riccardo-BacchelliNon risultano grandi risonanze pubblicistiche né tanto meno accademiche, per onorare la figura e l’opera dello scrittore, storico e critico Riccardo Bacchelli, nemmeno nella occasione del trentennale dalla morte.Il chiaro e classico ‘autore’ avrebbe meritato più accurata menzione, nel dilagare delle polemiche a proposito del rinato ‘realismo’ o nello sciocchezzaio dei ‘talk show’.

Val la pena di ricordare uno scritto mal noto, “Le notti di via Bigli”, in “Un augurio a Raffaele Mattioli” (Sansoni, Firenze 1970, pp. 3-44), con frequenti richiami a scrittori che frequentavano la dimora del banchiere umanista, abruzzese d’origine e autore della prestigiosa “Ricciardiana”. In tale scritto, il Bacchelli rievoca il critico Angeloandrea Zottoli, Luigi Einaudi, Giovanni Malagodi, Curzio Malaparte e Benedetto Croce, anche al centro di una fitta serie di studi nei suoi “Saggi critici”, raccolti per la Mondadori. Bacchelli ricorda la frase incisiva di Croce per Raffaele Mattioli: “Mattioli dice di aver letto molti libri; ma il fatto è che li ha letti davvero”.

Poi Bacchelli dèdica la raccolta di testimonianze, con un messaggio sempre attuale:”Per un compleanno rotondamente perfetto ( 20 marzo 1895), alcuni fra i molti amici di Raffaele Mattioli, a lui e tra loro però singolarmente avvicinati dal comune esercizio o studio delle un tempo dette umanità, gli offrono qualche frutto del loro lavoro, con l’augurio, per lui e per loro stessi, che la realtà e consistenza di queste arti e laboratori, a cui Mattioli ha prestato tanta attenzione e tanto ausilio, resista al rozzo bombardamento delle orrendamente chiamate scienze umane”. Bacchelli e Mattioli ‘umanisti’ parlano lo stesso linguaggio di Montale e assunto, Ragghianti e Bassani, preoccupati del determinismo causalistico che governa le cosiddette “scienze umane”, negativamente sostitutrici del puro ‘filosofare’. Tutto ciò ci rammenta l’importanza del primo romanzo, giovanile e già maturo, del Bacchelli ‘storico’, “Il diavolo al Pontelungo”, del 1927, storia delle vicende italiane dell’anarchico Bakunin, su cui piace evocare il giudizio d’un altro grande, Attilio Momigliano, anch’egli dimenticato nel 2012, a sessant’anni dalla morte.

Il “Diavolo” è la “storia del fallimento di un’utopia di mediocri, fatta da uno spirito superiore di conservatore, e fondata sopra una preparazione documentaria minutissima e quasi tutta assorbita. La prima parte, la storia della colonia locarnese di anarchici riuniti intorno a Michele Bakunin, è tutta un’atmosfera d’idillio fra cui spira, inavvertita, una brezza di canzonatura. La luce di questa scaltrezza psicologica e artistica si concentra nella figura del protagonista, Bakunin, che, così nella prima parte come nella seconda – il fallimento del moto di Bologna -, è avvicinato al lettore, sfrondato, rivelato senza violenza, e con tanto maggiore effetto, nel suo spirito fatalmente borghese. Intorno a lui la colonia formicola di anarchici dotti e inesperti, e di contadini ignoranti e astuti, ritratti con una chiarezza rappresentativa di cui avevamo quasi perduto il segreto” ( cfr. “Storia della letteratura italiana”, Principato, Messina-Milano 1947, pp. 622-623 ).L’opera del Bacchelli rimane importante e fondamentale, non solo per la ricostruzione storica, ma per quel tratto “arioso, frizzante, glocondo”, che affascina il lettore “con una fisonomia simpatica”. Conquistano l’attenzione i capitoli – tra gli altri – “Il ponte della Carità” e “Notti bolognesi”.

Giuseppe Brescia

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