Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, di Giuseppe Brescia

Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, di Giuseppe Brescia
Sommario: Diritto e morale in Vico. “De Constantia Jurisprudentis”, Diritto Universale e teoria della storia.Significati delle “guise” e delle “modificazioni della mente umana” nel Vico e nella modernità.Importanza dell’avverbio nello stile di Vico ( e altri ‘autori’). ‘E’ quando si sommano più e opposti errori che si forma il declino delle nazioni’. La doppia “barbarie della riflessione”. Casi storici di “declino delle nazioni”. La “barbarie della riflessione” in Donald Verene e altri teorici: economia ed etica. Misericordia Carità Diritto.

Diritto e morale in Vico.
Nella celebre Filosofia di Giambattista Vico del 1911, Benedetto Croce si occupa distesamente, al Capitolo VIII, di Morale e diritto; al IX, della Storicità del diritto ed al VII, di Morale e religione, risalendo alla ripresa viciana di Cicerone: “E ottimamente Cicerone diceva ad Attico, epicureo, di non poter istituire con lui ragionamento intorno alle leggi, se prima non gli concedesse che vi sia provvidenza divina” ( cfr., rispettivamente, le pp. 94-100; 101-108; 87 della nuova edizione del “Corpus” delle Opere di Benedetto Croce, Edizione Nazionale, a cura di Felicita Audisio, Bibliopolis, Napoli 1997 ). Codesta ripresa forma la base per la critica – in Vico – a Hobbes, oltre che a Grozio e al Pufendorf, esponenti massimi del “giusnaturalismo”. Ma getta le basi anche per la dedica “A Francesco Ventura – Caporuota della Vicaria Generale di Napoli”, De opera Proloquium, nella “Sinopsi del Diritto Univerale”, in italiano Dell’unico principio ed unico fine del diritto universale ( vedila in Opere giuridiche, a cura di Paolo Cristofolini, con Prefazione di Nicola Badaloni, Sansoni, Firenze 1974, pp. 18-19 ). Là dove epigraficamente recita Attico: “Tu non ritieni che la conoscenza del diritto non la si debba attingere da editto di un pretore, come i più van facendo, né dalle leggi delle XII Tavole, come per gli antenati, ma dall’intima profondità del filosofare ?” In originale: “ Atticus.Non ergo a praetoris Edicto, ut prelique nunc, neque a XII Tabulis, ut superiores, sed penitus ex intima philosophia hauriendum iuris disciplinam putas ?

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( Cicero, De legibus, liber I, cap. 5 )”. Croce liquida la tripartizione vichiana – in Dio – del “posse, nosse, velle infinitum”; e nell’uomo di “posse, nosse, velle finitum quod tendit ad infinitum”; così come la distinzione di giustizia ‘commutativa’ e ‘distributiva’, forme tra cui dovrebbe mediare la costruzione delle repubbliche, reputando queste dottrine vichiane come classificazioni di scuola, rispetto alla vera e propria originalità del “verum ipsum factum” e della Scienza nuova. Ma quel che preme, ora, sottolineare è che il fondamento epistemologico-filosofico del diritto si riafferma nel tenace impegno – in Vico – per ritrovare un punto di snodo, un raccordo, un felice sbocco della “teoria” nella “pratica” per la Scienza Nuova, anzi per “questa Scienza” ( come suggerisce in varie fasi il traduttore-interprete francese, amico dell’Italia, Alain Pons ). Vedremo anzi, poi, come, alla luce di tale rivisitazione ermeneutica, il canone della classificazione della ‘giustizia’ possa rientrare plausibilmente in gioco. Alain Pons, traduttore del Cortegiano di Baldesar Castiglionr e della canzone di Vico Gli affetti di un disperato ( in “Poesie” N° 27, Paris, Librairie Classique Belin, 1983, pp. 3-14 ), ha dato un cospicuo contributo alla ricomposizione culturale europea, con i suoi saggi a proposito del rapporto tra “Prudenza” e “Provvidenza”, filosofia politica e filosofia della storia, in Vico: testi che giungono a compimento ermeneutico nella pregevole traduzione integrale La Science Nouvelle ( Fayard, Paris 2002, pp. 560 ) e in Da Vico a Michelet. Saggi 1968-1995 ( ed. it. ETS, Pisa 2004, sull’originale del Grasset, Paris 1981). La ”Scienza Nuova” è stata molto più che una “filosofia della storia”; è una “filosofia dello spirito”, in tutti i suoi aspetti. L’edizione francese, curata dal Pons, offre in Appendice la versione di Pratica di questa Scienza, breve ma succoso capitolo delle Correzioni Miglioramenti Aggiunte del 1731 alla redazione 1730 del capolavoro vichiano. Ad avviso di Pons, “tutta la scienza filosofica ha un aspetto teorico e uno pratico. Sin dal 1725, Vico aveva assegnato alla sua Scienza un valore ‘diagnostico’, nella misura in cui ella permetteva di riconoscere a quale stadio del suo corso si trovi una nazione, sia in rapporto alla sua ‘acmé’ sia nella prospettiva dello stadio successivo di dissoluzione del suo stato. E’ a questo punto, pensa il Vico, che bisogna lottare duramente per restaurare il senso comume perduto, e ridar forza e ricominciamento al ricorso” ( mia attualizzazione, dopo il ‘1994’ e dopo l’11 settembre 2011, in Joyce dopo Joyce, L’Arte Tipografica, Napoli 2004, pp. 95-96 ). In questo senso, aveva ben ragione Croce ad asserire che la teoria dei corsi e ricorsi storici va assunta in senso ideale, come esigenza di categorie eterne o momenti spirituali; non già in quanto meccanica ripetizione di accadimenti. E avevan ragione, per parte loro, James Joyce e il giovane Samuel Beckett, a riattualizzare la lezione vichiana, con l’anticipazione di Anna Livia Plurabelle, capitolo di Finnegans Wake, il primo; e con la tesi Dante… Bruno. Vico.. Joyce del 1927, il secondo ( poi in Disjecta, Calder, London 2001 ). Entrambi i dotti, irlandesi per l’ origine ( ma europei e filo-italiani di formazione ), sentono venire la ‘crisi’, percepiscono – junghianamente – la “enantio-dromia”, la corsa ‘dei’ e ‘tra i contrari’ sull’orlo del ‘precipizio’, che si profila in Europa. E a lor vario modo rispondono.
”De Constantia Jurisprudentis”.
Ecco allora, “la filosofia che viene in soccorso della prudenza”, “en aide de la prudence”, dice stupendamente Vico in Pons ( cfr. pp. XXIII e 543-547 de La Sciente Nouvelle ). E tornano note bruniane sui rischi di ‘empia pietà’, nelle fasi di decadenza ( Vico fa gli esempi di Messalina e di Nerone ). Tornano le casistiche della ‘materia’ e della ‘forma’, della ‘oscurità’ informe ( presagio di aspetti della ‘vitalità’ nell’ultimo, ma non solo nell’ultimo, Croce ), e della luce della creatività degli individui, ‘industriosi e fertili’, ‘saggi e puri’, che alla oscurità si contrappongono, dando principio al ‘ricominciamento’, al ‘ricorso’ ( fase di cui, ed in cui, siamo, ognora, compresi e partecipi ), Per ciò stesso, Vico tesse e ri-tesse l’ elogio della “giurisprudenza”, al vertice di tutte le scienze umane, dando implicitamente soddisfazione al quesito filologico posto da Alain Pons, in premessa, sul perché questa Appendice sia stata esclusa dalla terza edizione della Scienza Nuova del 1744. Qui, forse e senza forse, le esigenze di “Rimeditazione” (1725 ), e “Pratica di questa Scienza” (1731), andavano a sfociare nella magistrale focalizzazione, e ripresa, del “Ricorso” (Libro V, ed.1744).
Ma l’assillo del Vico per le crisi ricorrenti aveva conquistato, sin dai primi decenni del secolo, la efficace risposta, e prosecuzione fattiva e prudente, con l”elogio della “costanza”, e/o “coerenza”, della “giurisprudenza”.

Vediamo meglio. L’interrogativo di Pons, in chiusura di Présentation, è: “Si Vico renonce à évoquer, en 1744, la possibilité d’une pratique de sa science, est-ce par découragement moral, ou bien parce qu’il confie désormais entièrement le destin des nations à la providence ?” ( p. XXIII).

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Richiama i precedenti studi di Max H. Fisch, Vico’ Pratica, e Alain Pons, Prudence and Providence: The Pratica della Scienza Nuova and the problem of theory and practice in Vico, in Giambattista Vico’s Science of Humanity ( ed. G. Tagliacozzo e D. Ph. Verene, Baltimore and London, The John Hopkins University Press, 1976, pp. 423-430 e 431-448). In effetti, sul tema cruciale, Alain Pons era tornato nel saggio del 1995, onorandomi della dedica “Au Professeur Giuseppe Brescia – En hommage trés amical – Alain Pons”, Vico: de la Prudence à la Providence, in De la prudence des anciens comparée à celle des modernes. Sémantique d’un concept, déplacement des problématiques, publié sous la direction de André Tosel ( Annales Littéraires de l’Université de Besançon, Le Belles Lettres, Paris 1995, pp. 149-167). E, dopo, nella Appendice alla versione integrale del capolavoro vichiano del 1744, rammenta la Pratique de cette science, annotando esser questo il titolo esatto registrato nel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli, XIII, D.80: Pratica di questa Scienza, e non Pratica della Scienza nuova, come “si può leggere nella edizione del Nicolini” ( p. 543 ). Oscillando molti autori tra le due dizioni, o semplificandola in Vico’s Pratica (Fisch ) o svariando tra Pratica di questa Scienza e Pratica di questa Scienza nuova ( Paolo Rossi, 1959; Pons 1995, pp. 166 sgg. ), si riconosce la fonte della riscoperta nicoliniana nella Edizione maggiore della Scienza nuova seconda, giusta l’edizione del 1744 con le varianti dell’edizione del 1730 e di due redazioni intermedie inedite, a cura di Fausto Nicolini, nella collana laterziana “Scrittori d’Italia”, giustamente recensita su tutti i più importanti giornali letterari dell’epoca ( Quarta edizione riveduta a arricchita di postille inedite d’un discepolo, Bari 1953, Parte seconda, pp. 355-356 ). Dove l’erudito napoletano, fraterno amico di Croce, va ancora oltre: “Né basta. Il quinto libro, consacrato ai ricorsi storici, vale a dire alla dottrina intorno alla quale l’autore si travagliò maggiormente negli ultimi suoi anni è, oltre che ampliato, assai meglio ordinato. Ricompare, arricchito di continue e lunghe giunte e col titolo Pratica della Scienza nuova, un capitoletto dato già, col diverso titolo Meditazione di una scienza nuova, nell’edizione del 1725. Permane, aumentata, la Tavola d’indici”. Similmente, il saggetto riepilogativo e orientativo a un tempo del (1725)-1731 è ripubblicato nel volume antologico curato e introdotto da Paolo Rossi, Opere ( Rizzoli, Milano 1959, pp. 868-871 ), con il titolo Pratica di questa Scienza Nuova ( laddove manca alle antologie di Pasquale Soccio, Autobiografia Poesie Scienza Nuova, curatissimo ‘Grande Libro’ garzantiano, Milano 1983; e del fondamentale Andrea Battistini, nelle Opere del Vico in due voll, Mondadori, Milano 1990 ).
Diritto universale e teoria della storia.
Era, questo spunto, il cruccio segreto di Vico, l’ ”eroe della vita filosofica” di cui parla in pagine ancora toccanti il Croce del 1911; era il pre-moderno “tanta fatica, e non ce l’abbiamo fatta !”; la mancanza, cioè, di seguito pratico, di efficacia civile, di snodo tra pensiero e azione, bruciantemente avvertita, pur dopo uno sforzo teoretico e storiografico di portata enorme ( così nel “Diritto Universale”, come nelle tre stesure della “Scienza Nuova” !). Ad esempio, già nella Scienza Nuova prima, al Capo XII, Sull’idea di una giurisprudenza del genere umano, scrive il Vico: “E tale per indispensabile necessità dee procedere il ragionamento dintorno al diritto naturale delle nazioni secondo l’ordine naturale dell’idee: non come altri immaginano d’aver fatto, che ne prepongono i magnifici titoli ai più grossi volumi e nulla arrecano, più di ciò che volgarmente sapeasi, nelle loro opere” ( La Scienza Nuova prima. Con la polemica contro gli ‘Atti degli eruditi’ di Lipsia, a cura di Fausto Nicolini, Bari 1968, pp. 30-31 ).

Vico aveva già detto, nel De constantia jurisprudentis, al capitolo XVIII, De Historiae Profanae Elementis, p. 512 in: 345-729 delle Opere giuridiche ( edizione Badaloni-Cristofolini, Firenze 1974):”La giurisprudenza è la cognizione delle cose divine e umane. Abbiamo dunque dimostrato l’unico principio e l’unico fine del diritto universale. E siccome il ‘gius’, la legge, ossia il giusto, procede dall’eterna giustizia, cioè da Dio ch’è di ogni legislazione principio, così il ‘gius’, o la giurisprudenza, si rivolge ugualmente all’eterna giustizia, a Dio, ch’è il fine, il finale obbietto di ogni equa interpretazione ( ‘qui omnis aequae interpretationis est finis’ )”.

Non è, quindi, che, alla fine delle revisioni del proprio capolavoro, Vico abbia pregiato il senso della Provvidenza, “divina mente legislatrice”, soppiantandola alla “prudenza” ( di etimo, o derivazione, comune ), come alternativamente inclina a congetturare il Pons: l’appello alla Provvidenza divina era già esplicito nelle fasi di “passaggio” alla Scienza Nuova. Si tratterebbe, semmai, di ponderare bene quali siano le forme, le modalità o le “guise” di tale dottrina, in linea con il corso più profondo del pensiero vichiano. In tutto ciò, la “legislazione” serba costante un ufficio e ruolo primario, regolativo, modale. Libro I – Sezione II, par. 132-133 Nicolini: “La legislazione considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società: come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità. – Questa degnità pruova esservi provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in una umana società”. Notevole il capo XCII del Libro I – Sezione II, ai par. 283-284 dell’edizione Nicolini: “I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i prìncipi, per uguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono . – Questa degnità, per la prima e seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristocratiche, nelle qual’i nobili vogliono appo l’ordine arcane tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e le ministrino con la mano regia ..” Soprattutto, al nostro assunto, vale il par. 147 dello stesso Libro I – Sez. II: “Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose”.
Rende bene in lingua franca la degnità, il Pons ( alla pagina 90 della sua traduzione: “La nature ( ‘natura’ ) des choses n’est rien d’autre que leur naissance ( ‘nascimento’) en certains temps e de certaines manières ( ‘guise’ ); tels sont les temps e les manières, telles et non autres naissent toujours les choses”. Passi investigati da sempre per ogni direzione dell’ermeneutica filosofica e civile, e di cui non intendo qui procurare che qualche scampolo significativo, se pure meno noto e compulsato: ad esempio, dopo gli Scritti varii di letteratura, filosofia e critica di Francesco Fiorentino, con le Lettere sopra la Scienza Nuova alla marchesa Florenzi Waddington ( Morano, Napoli 1876, pp. 161-211), ci soccorre Roberto Flint, docente all’Università di Edimburgo, G. Batista Vico. Traduzione dall’inglese del conte Francesco Finocchietti ( Tip. Coppini e Bocconi, Firenze 1888 ), al Capo VII, Il Vico come teorico del diritto ( pp. 149-182 ) ed VIII, Passaggio alla Scienza Nuova ( pp. 183-206: dedicato al De Constantia Jurisprudentis ), già alle pp. 34-37 del capo Vita più avanzata (1694-1744) . Senza dire di Antonio Corsano, all’intenso Capitolo IV de Il diritto universale ( G.B. Vico, Bari 1956, pp. 137-200); Ada Lamacchia, Vico e Agostino ( in Giambattista Vico. Poesia Logica Religione, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 270-319 ); e delle cure filologiche e ricostruttive di Badaloni e Cristofolini alla edizione delle Opere giuridiche del 1974.

Procedendo dal piano filologico in quello filosofico, vogliamo ricercare la miglior ‘traduzione’ ( ‘interpretazione’ ) del De Constantia Jurisprudentis, Parte seconda del “Diritto Universale”. L’ottocentesco Sarchi, ripreso dal Badaloni, scriveva “Dei doveri del giurista”. Ma se traducessimo, non più “doveri” del giurista (Sarchi ), né “coerenza del giureconsulto” ( Badaloni-Cristofolini ), bensì, “costanza” delle “guise”, con cui opera la “prudenza” / “giurisprudenza” ? E così facessimo, proprio per l’evidenza di evitare il “declino delle nazioni”?

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Significati delle “guise” e “modificazioni della mente umana” nel Vico e nella modernità.
Ermeneuticamente, dire “guise”, “modi”, “maniere”, certo vuol dire: “Forme di attività dello spirito umano” ( Croce ); o già “modificazioni della mente” ( Vico, in senso sostanziale ).”Ma in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità che non si può a patto alcuno chiamare in dubbio: che questo mondo civile egli certamente ( ‘certainement’, traduce Pons ) è stato fatto dagli uomini; onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana” ( ‘à l’intérieur des modifications de notre propre esprit humain’: Libro Primo, Sezione terza, De’ princìpi, par 331 ). Vico ribadisce tale dottrina nel Libro secondo, Sezione prima, dedicata alla “Metafisica Poetica”, a proposito dei “primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni”: “E dovevano incominciarla dalla metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non già da fuori ma da dentro ( ‘non pas dans le monde extérieur, mais dans’ ) le modificazioni della propria mente di chi la medita, dentro (‘à l’intérieur de’ ) le quali, come sopra dicemmo, perché questo mondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uomini, se ne dovevan andar a truovar i princìpi; e la natura umana, in quanto ella è comune con le bestie, porta seco questa propietà: ch’i sensi sieno le sole vie ond’ella conosca le cose” ( par. 374 ed. Nicolini ). Al dire di Antonio Corsano, forse Vico prese spunto dalle Recherches di Malebranche, per la definizione delle “modifications” della mente umana ( cfr. G.B. Vico, Bari 1956, cit., pp. 220 sgg; Raffaello Franchini, Le origini della dialettica, Giannini, Napoli 1976, 4^ ed., Appendice, anche in polemica con la tesi di Alfredo Parente, che intendeva espungere la presenza di Vico dalla storia della “dialettica”, accreditata solo come antitesi ). Certo analogie e precorrimenti si colgono a ogni pie’ sospinto in Vico, come in tutti i grandi pensatori: ma quel che gli è peculiare è questo accento forte sul carattere autonomo, e perciò creativo, delle ‘modificazioni della mente’.

Importanza dell’avverbio nello stile di Vico ( e altri ‘autori’).
In questo senso, non mi pare sia stata sufficientemente notata l’importanza epistemologica degli avverbi ( che abbiamo sottolineato, di proposito ): “certamente”, per l’esser il mondo civile fatto dagli uomini; “non già da fuori, ma da dentro”, per la fondazione della “metafisica”; “dentro”, “dentro”, a proposito delle modificazioni, all’interno delle quali vanno ritruovati i princìpi della Scienza nuova. L’avverbio incide stilisticamente il “fulcro” teoretico, il fondamento indiscutibile della ricerca vichiana ( ciò che rimane per sempre, al di là di tutte le contingenze storiche o politiche ); un poco come l’avverbio “o presso”, nel definire il rapporto tra “virtù” e “fortuna”, al capitolo VI del Principe di Niccolò Machiavelli, epistemologicamente costituisce la formulazione più importante e decisiva di tutto il contesto, in sé racchiudendo il valore equiprobabile del rapporto tra prove e risultati, poi alla base per il teorema del limite di Richard Von Mises e la statistica della previsione. Lo stesso si dica per “verso…”, decisivo per affermare o negare il senso finale della storia, come nell’orientamento crociano del 1933 “Il mondo va verso…”; o per racchiudere in sede di analisi psicologica, secondo Eugène Minkowskj, nella ‘paroletta’, il senso del destino, attraverso il ‘soffio dell’umano’, che v’introduce. L’avverbio, parte del discorso che sta presso il verbum, finisce per essere espressione – dal mio punto di vista – di esigenza fondativa concettuale, alla stessa stregua con cui le ‘relazioni’ e i ‘ponti’ tra le categorie – apparentemente ‘deboli’ – risultano ‘ forti’, perché ‘strutturali’ o ‘architettoniche’. Il filologo romanzo Erich Auerbach, più di Mario Fubini (nel libro Stile e umanità di Giambattista Vico, Milano-Napoli 1965), e nel suo San Francesco Dante Vico, commentando questi luoghi vichiani, si avvicina alla presente lettura, pregiando l’uso degli aggettivi e la struttura sintattica complessiva del periodo: “Dappertutto si incontrano in luogo degli articoli gli aggettivi esornativi e dimostrativi ‘tal…questo…questa’. Non diversa è l’impressione che riceviamo dall’andamento ritmico. Ben trenta sillabe dura la notte profonda, la cui tenebra è piena di un contenuto compresso ( ‘la prima da noi lontanissima antiquità’), mentre il sorgere della luce, introdotto dal verbo ‘apparisce’, viene interrotto due volte dagli squilli di fanfara delle pleonastiche frasi secondarie ( 11+5+6+17 sillabe); il tutto forma un crescendo di significato e di intensità tonale fin ai due punti, dopo i quali prorompe l’affermazione sostanziale: che questo mondo storico senza dubbio è stato fatto dagli uomini” ( S. Francesco Dante Vico, ed. it., De Donato, Bari 1970, pp. 67-69 ). Subito dopo, l’Auerbach coglie il nesso tra ‘stile’ e ‘questione di fondamento’: “Soltanto alla fine di tutto il periodo, ci si svela il luogo che si cercava: il nostro spirito umano. Esso però non viene soltanto semplicemente nominato, ma le parole: ‘dentro le modificazioni’ indicano che si deve cercare nell’ambito dello spirito, nel quale sono per così dire nascosti, e ritrovabili solo con una profonda indagine, i princìpi della storia umana” ( op. cit., p. 68 ).

E in effetto, dire “guise”, vuol dire anche: “ogni modalità regolativa”, “ogni principio regolativo”, dei processi storici e mentali ( Kant 1781 ). A me sembra che, rendendo “dei doveri del giurista”, non venga restituito all’evidenza proprio l’aspetto della “riproduzione costante” delle “guise”, e del fare appello -ineludibile appello, o richiamo, o ricorso, che dir si voglia – alle “guise” della “prudenza”, classica e moderna “virtù” della “previsione” ( Aristotele, Cicerone, Machiavelli, Kant, Croce, Franchini ). D’altro canto, dicendo anche: “La coerenza del giurista”, certo non si sbaglia; ma si appanna, ancor qui, l’idea del “costante proporsi e riproporsi del riparo offerto dal giurista”, etimologicamente “chiamato”, ad-vocatus, per esercizio della “prudenza”. Ora, ciò che manca alla ‘inerte’ traduzione descrittiva di De Constantia, è l’aspetto dialettico, bi-polare, dia-gnostico dell’errore che si trasferisce bene spesso, e sempre più spesso nelle fasi di “declino delle nazioni”, da uno ad altro ‘sistema’ ( “Welfare”; libero mercato ), e dall’uno all’opposto lato (immigrazione clandestina – xenofobia; mancanza di regole- eccesso di regole; europeismo incontrollato – “brexit” non ben calcolata, e così via ). Pure, il “principio diagnostico” è esattamente il termine adottato da Giambattista Vico nella citata Pratica di questa Scienza, o Pratica di essa Scienza Nuova, del 1731. Esso principio è introdotto per delucidare il trasferirsi della “crisi” dal modello romano di Repubblica a quello settecentesco della Monarchia, sulla strada che procede dal Diritto Universale (1720) alla Scienza Nuova (1725, 1730, 1744 ).

Ed è quando si sommano più ed opposti errori, che si avvia e poi forma il precipizio o ‘declino delle nazioni’.

Potremmo proporre di tradurre meglio “La i n s i s t e n z a del giurista”, il De Constantia Jurisprudentis.Orazio, nell’ Ars Poetica, dice: “In vitium ducit culpae fuga” ( ‘Fa cadere nell’errore opposto l’aver scansato una colpa’), compiacendo Vico, sulla strada che va da Platone e dalla sua Repubblica ai cicli di Polibio e ai declini imperiali di Tacito; dal bestione di Giordano Bruno alla mutazione delle forme dialettiche di Antonio Rosmini; o dalla “enantio-dromia” di Garl Gustav Jung in Psicologia e religione al linguaggio capovolto di “1984” di George Orwell e al capovolgimento di valori in disvalori nella Fine della civiltà e Anticristo che è in noi dell’ultimo, bruniano e vichiano, Benedetto Croce.

Certo, i valori, quanto più sono “preziosi”, tanto più van trattati con garbo o maniera, “giudizio” e “saggezza” ( v. il mio “1994”.Critica della ragione sofistica, Laterza, Bari 1997 ). Di tutti i vulnera possibili e immaginabili, quello sistematicamente arrecato al “diritto”, alla “costanza, coerenza, insistenza” universale del diritto ( o dei suoi interpreti attuatori ), è perciò l’esiziale per il corso delle nazioni civili. Non a caso, il filosofo della pratica e teologo Italo Mancini segnalava un lancinante grido d’allarme sin dal 1986: “Per il diritto sembra che le campane suonino a morto” ( cause, le varie forme di incantesimo manipolativo; il negativismo giuridico; le filosofie analitiche o strumentalistiche del diritto; la concezione sovrastrutturale del diritto; la ‘innocenza del divenire’ di derivazione nietschiana ), nella sua fondamentale Filosofia della prassi ( Morcelliana, Brescia 1986 ). “Dove va a finire la vichiana civiltà del diritto e la sua opera di sbarbarimento che Ugo Foscolo fissava nei suoi versi: Dal dì che nozze, tribunale ed are / dier alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui?”, si chiede il teoreta (op. cit., p. 129). Lo stesso Immanuel Kant della Metafisica dei costumi, qui riecheggiata, non è distante dalla ‘critica dell’ editto pretorile’, unica fonte di giurisprudenza, rivendicata ottant’anni prima dal Vico. “Il giureconsulto può, certo, conoscere e dichiarare che cosa appartenga al diritto ( quis sit juris), vale a dire ciò che leggi in un certo luogo o in un certo tempo prescrivono o hanno prescritto; ma se ciò che queste leggi prescrivono sia anche giusto, e il criterio universale per mezzo del quale si può riconoscere in generale ciò che è giusto e ciò che è ingiusto ( iustum et iniustum ), gli rimane completamente nascosto. (..) Una dottrina del diritto puramente empirica ( come la testa di legno nella favola di Fedro ) è una testa che può essere bella, ma che, ahimé !, non ha cervello “ ( cfr. la Metafisica dei costumi, del 1797, nella traduzione Vidari, Bari 1970, p. 34 ). E’ la nostra civiltà del diritto, che fa “diverso l’Occidente, verso l’Est, il più o meno lontano Oriente”. E non come mera “erudizione”; sì – bene – per la “filosofia”, o dottrina dei trascendentali, dei principii delle cose naturali e divine: quella dottrina che in Kant si giuoca nello scarto tra il quid juris e il quid iustum, ed in Vico riporta alla Provvidenza divina ( benché calata e risolta nello studio della storia delle nazioni, e del ‘ricorso’ ideale eterno ).
Dice bene, dunque, Pons nella citata Présentation du traducteur: “Là , il insiste sur le stade final de la dissolution des nations. Il en reconnait les causes dans l’oubli de tous les ‘principes’ sur lesquels les nations se sont fondées et se sont conservées, la religion, la famille, la morale. Il faut donc lutter pour restaurer le sens commun perdu” ( cit., p. XXIII: ultimamente, dopo il trentennio di docenza di Filosofia politica alla Università di Paris X – Nanterre, Alain Pons è tornato su questi temi in un ‘eBook Kindle’, Vie et mort des Nations.Lecture de ‘La Science Nouvelle’ de Giambattista Vico, ‘L’Esprit de la Cité’, Paris, 15 ottobre 2015). Per “lottare duramente”, dando così impulso al “ricorso” e restaurando il “senso comune smarrito”, occorre combattere la duplice e opposta fenomenologia dell’errore – dialetticamente affrontata e simultaneamente compresa: per questo motivo, Vico torna a più riprese sulla Rimeditazione di questa scienza o Pratica di questa Scienza nuova, arricchendola di nuove giunte e più particolari volute, descrittive – per un verso – degli “uomini che non hanno né proprio consiglio né propria virtù” e, per l’altro, di quelli “che possono consigliare e difendere sé ed altrui, che son i saggi e i forti” (v. La Scienza Nuova seconda. Parte seconda, cit., pp. 274-277 ).

Ma entra in campo la complessità concettuale del “diritto”, del “gius”, su cui si affatica il pensiero della modernità, prima di e fino a Vico: jus naturale prius e jus naturale posterius, che voglion dire “arbitrio individuale” prima, e “capacità della ragione di portare in luce le regole di conservazione”, solo implicite nella prima figura del “diritto”, in un secondo momento. E siffatta “complessità” è propedeutica all’altra, tra “giustizia” secondo la legge di “proporzione aritmetica”, detta anche “commutativa”, e la “giustizia giusta la “proporzione geometrica”, o “distributiva” ( cfr. la prefazione di Paolo Rossi, pp. XV sgg. alle citate Opere giuridiche di Vico; e tutto il contesto della magistrale deduzione del Primo libro della “Sinopsi del diritto univerale”, ossia i capitoli LVII-LXII del De uno universi iuris principio et fine uno ( op. cit., pp. 70-76 ). Ho già accennato al bisogno di ritornare su questi concetti, all’interno – però- di un nuovo campo ermeneutico: la “complessità” del moderno, di fronte al rischio del “declino delle nazioni”; donde la difficoltà della “lotta” per salvare il “senso comune” e ripristinare il “ricominciamento” ( idea che sarà poi, emblematicamente, il IV Libro della ‘Veglia di Finnegan’, Finnegans Wake ).

Un contemporaneo di Vico, rispetto a cui si collocano alcune interpretazioni del diritto, Gian Vincenzo Gravina, allude alla “complessità” della lex promiscua ( corrispondente al concetto di jus naturale prius ) rispetto alla lex solius mentis ( corrispettiva di jus naturale posterius ). Ma ciò comporta una “diagnosi” della complicazione del quadro giuridico-istituzionale delle nazioni, che appare affine o simigliante alla fase di decadenza narrata dal Vico. “ Con la lex promiscua è infatti designata tutta quella serie di eventi che interferiscono con la storia umana a partire dalle circolazioni della natura. A questo livello il danno di una cosa si converte nella utilità di un’altra e non è possibile quindi costruire una idea del giusto e dell’ingiusto” ( cfr. Introduzione di Paolo Rossi, cit., pp. XVI-XVII, sulla base di Jani Vincentii Gravinae Originum Juris Civilis libri tres et De romano imperio, Venetiis, 1752, p. 106).

“Non è possibile costruire un’idea del giusto e dell’ingiusto”: osiamo recare esempi tratti dalla più stretta contemporaneità, non per svilire la qualità teoretica del percorso ma per render evidente la perenne attualità di questa lezione sulle forme e le complessità, le distinzioni e le promiscuità, del diritto. Non sembra di leggere pagine aderenti all’oggi, allorché ci avviciniamo alla traccia della Lex promiscua ( Gravina ) o della rinnovata Barbarie della riflessione (Vico) ? Nel capitolo dei Ricorsi ( l’ undecimo della propria monografia del 1911 ), il Croce così riepiloga: “ Lo spirito, percorsi i suoi stadi di progresso, e dalla sensazione innalzatosi successivamente all’universale fantastico e poi a quello intelligibile, dalla violenza all’equità, non può, in conformità della sua eterna natura, se non ripercorrere il suo corso, ricadere nella violenza e nel senso e di là riprendere il moto ascensivo, iniziare il ricorso. E’ codesto il significato filosofico del ‘ricorso’ vichiano, ma non è il modo preciso in cui lo si trova epressso negli scritti del Vico, dove l’eterno circolo viene quasi esclusivamente considerato nelle storie dei popoli, come ricorso delle cose umane civili. La civiltà va a terminare nella ‘barbarie della riflessione’, peggiore della prima barbarie del senso, che era di una fierezza generosa, laddove l’altra è vile, insidiosa e traditrice; e perciò è necessario che quella malnata sottigliezza d’ingegni maliziosi vada a irruginire dentro lunghi secoli di una nuova barbarie del senso.(..) La storia politica mostra di continuo lo spettacolo di aristocrazie che, da forti che erano, si fanno vili e spregevoli, e cedono all’urto di classi meno affinate o addirittura rozze ma moralmente più energiche, fintanto che queste, diventate a loro volta raffinate, raggiunta la più alta fioritura delle idee storiche di cui portavano il germe, entrano in un periodo di decadenza e di fermentazione, dal quale esce una nuova classe dominatrice, giovanilmente barbara. E la storia della filosofia mostra periodi positivistici e periodi speculativi, l’irrigidirsi delle soluzioni filosofiche nelle dottrine scolastiche e nei dommi, il ritorno alla mera osservazione del fatto singolo, e il rinascente processo speculativo. E la storia letteraria ci parla anch’essa di periodi realistici e idealistici, romantici e classicistici, di corruttela classica che è alessandrinismo e decadentismo, e di barbarie romantica che da questo risorge. Ecco altrettanti casi di veri e propri ricorsi vichiani. Ma poiché il ritmo dello spirito, posto a fondamento di questi cicli, è fuori del tempo ossia è in ogni istante del tempo, non bisogna esagerare la distinzione dei periodi; e, se quella legge deve avere una certa rigidezza, deve per altro serbare anche una certa elasticità” ( cfr. p. 119-128).

E’, insomma, il “The new I want”, nella stessa pagina dell’ Ulysses di James Joyce, che poco sopra ha trattato della “storia che si ripete”, anzi “repeats herself”, accettando e calando nella inesausta ricerca stilistica il canone ermeneutico di Croce, studiato – con Vico – tra Dublino e Trieste ( Dario De Tuoni, Ricordi di Joyce a Trieste, Scheiwiller, Milano 1968; Richard Ellmann, James Joyce, Oxford 1959-1982, passim; Giuseppe Brescia, Joyce dopo Joyce, L’Arte Tipografica, Napoli 2004 e Tra Vico e Joyce, Laterza, Bari 2006 ).
La doppia “barbarie della riflessione”.

Quel che, in verità, nessuno mai dice è il fatto che esiste una “doppia barbarie della riflessione”: la prima è quella della lettera a Gherardo degli Angioli, della autobiografia e della giovanile De nostri temporis studiorum ratione, per la quale la “barbarie” consiste nella pedagogia “cartesiana” del raziocinio, che mortifica la poesia e la fantasia e il senso nei giovani ( “filosofia che professa ammortire tutte le facoltà dell’animo che li provengano dal corpo, .. e di una sapienza che assidera tutto il generoso della migliore poesia”; mentre i giovani debbono educarsi mediante “esempi che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere” ). Questa “barbarie della riflessione” è, però, senza malizia, viltà, tradimento e insidia. L’altra forma di “barbarie della riflessione” appartiene al Vico maturo, quando il filosofo ha capito che – nel corso delle nazioni e della civiltà – esiste una stagione ben peggiore della iniziale “barbarie del senso”, materiata di “malnata sottigliezza d’ingegni maliziosi” e di “malizia riflessiva” ( ed è nella Conchiusione della Scienza Nuova seconda, dianzi citata ). Questa seconda tipologia appartiene al Vico – per dir così- “pre-orwelliano”, dis-topico, “nato a debellar tre mali estremi: tirannide sofismi ipocrisia” ( per dirla con l’amato fra’ Tommaso Campanella ); pre-visione geniale che smentisce la meccanica ripetitività della vita delle nazioni e dei periodi storici, dal momento che non c’era nella età di “barbarie del senso”. La prima forma di barbarie della riflessione ( o pedagogia cartesiana ) è un “errore”. La seconda forma ( o “malizia riflessiva” ), come errore coscientemente voluto, è il “sofisma”, o somma di sofismi ( con l’accrescersi degli “ingegni maliziosi” che interagiscono a più livelli ).

Lottare duramente”, per ridar impulso al “ricorso” nelle cose civili, nella storia delle nazioni, richiede, allora, ampia ed accresciuta analisi “diagnostica”, con approfondita fenomenologia vuoi dell’errore vuoi delle possibilità di riscatto e ripresa: Pratica di questa Scienza ( par. 1405-1411 ).

“Ma tutta quest’opera è stata finora ragionata come una mera scienza contemplativa d’intorno alla comune natura delle nazioni. Però sembra, per quest’istesso, mancare di s o c c o r r e r e a l l a p r u d e n z a umana, ond’ella s’adoperi perché le nazioni, le quali vanno a cadere, o non rovinino affatto o non s’affrettino alla loro roina; e ‘n conseguenza mancare nella p r a t i c a, qual dee essere di tutte le scienze che si ravvolgono d’intorno a materie le quali dipendono dall’umano arbitrio, che tutte si chiamano ‘attive’ ( 1405 ).

Cotal pratica ne può esser data facilmente da essa contemplazione del corso che fanno le nazioni; dalla qual avvertiti, i sappienti delle repubbliche e i loro principi potranno con buoni ordini e leggi ed esempli richiamar i popoli alla loro acmé, o sia stato perfetto. La pratica, la qual ne possiamo dar noi da filosofi, ella si può chiudere dentro dell’accademie. Ed è che ‘n questi tempi umani, ne’ quali siam nati, d’ingegni scorti ed intelligenti, dee qui, nel fine, guardarsi a rovescio la figura proposta nel principio; e che l’accademie colle loro sètte de’ filosofi non secondino la corrottella della setta di questi tempi, ma quelli tre princìpi sopra i quali si è questa Scienza fondata – cioè: che si dia provvedenza divina; che, perché si possano, si debbano moderare l’umane passioni; e che l’anime nostre sien immortali – e quel criterio di verità: che si debba riverire il comun giudizio degli uomini, o sia il senso comune del gener umano, del quale Iddio, che non lascia sconoscersi dalle quantunque perdute nazioni, non mai desta loro più forte riflessione che quando esse son corrottissime. Perché, mentre i popoli son ben costumati, essi operano le cose oneste e giuste più che ne parlano, perché l’operano, più che per riflessione, per sensi: ma, quando sono guasti e corrotti, allora, perché mal soffrono internamente sentirne la mancanza,non parlan d’altro che d’onestà e di giustizia ( come naturalmente avviene ch’uomo non d’altro parla che di ciò ch’affetta d’essere e non lo è ); e, perché sentono resister loro la religione ( la qual non possono naturalmente sconoscere e rinniegare ), per consolare le loro perdute coscienze, con essa religione, e m p i a m e n t e p i i, consagrano le loro scellerate e nefande azioni. Onde sono que’ due orrendi umani fenomeni che si leggono sulla storia di Roma corrotta: uno di Messalina, la qual aveva appo il balordo e scimonito Claudio tutto l’agio, licenza e libertà di sfogare l’intiere notti nel chiasso la sua insaziabil libidine, ma, nel tempo stesso ch’era maritata con l’imperatore, vuol godersi Caio Silio con tutta la santità e celebrità delle nozze; l’altro è di Domizio Nerone, ch’aveva svergognata la maestà dell’imperio romano col far il musico per gli pubblici teatri, e co’ sagrifici ed augùri e tutte l’altre cerimonie divine volle maritarsi nefariamente a Pittagora (1406).

Per tutto ciò i maestri della sapienza insegnino a’ giovani come dal mondo di Dio e delle menti si discenda al mondo della natura, per poi vivere un’onesta e giusta umanità nel mondo delle nazioni. Ciò vuol dire che l’accademie, con tai princìpi e con tal criterio di verità, addottrinino la gioventù che la natura del mondo civile, ch’è ‘l mondo il qual è stato fatto dagli uomini, abbia tal materia e tal forma quali essi uomini hanno; laonde ciascuno di essi due princìpi, che ‘l compongono, sia della stessa natura ed abbia le stesse propietà c’hanno esso corpo ed essa anima ragionevole, delle quali due parti la prima è la materia e la seconda è la forma dell’uomo (1407).

Le propietà della materia sono d’essere informe, difettuosa, oscura, poltrona, divisibile, mobile ‘altro’ come Platon la chiama, o sia sempre da sé diversa; e per tutte queste propietà essa materia ha questa natura d’esser disordine, confusione e cao, ingordo di distruggere tutte le forme. Le propietà della forma sono d’essere perfezione, luminosa, attiva, indivisibile, costante, o sia che, quanto più può, si sforza di persistere nel suo stato, nel qual è ( che è quello onde Platone suol appellarla ‘l’istesso’ ); per le quali propietà la natura della forma dell’uomo è d’essere ordine, lume, vita, armonia e bellezza (1408).

Quindi la materia (ch’è ‘l corpo del mondo delle nazioni ), per la propietà d’essere informe, sono gli uomini che non hanno né proprio consiglio né propia virtù; per la propietà d’esser difettuosa, sono gli uomini viziosi, perché tutti i vizi altro non son che difetti; per la propietà dell’oscurezza, sono gli uomini i quali traccurano, nonché la gloria ( ch’è un lume grande e strepitoso ), anco la lode ( ch’è un lume quieto e picciolo ); per la propietà d’essere neghittosa ed infingarda, sono tutti i poltroni, dilicati, molli e dissoluti; per la divisibilità sono gli uomini che non vanno appresso ad altro che alle loro propie particolari utilità ( le quali dividono gli uomini ) ed a’ corporali piaceri o sieno gusti de’ sensi ( i quali tanti sono quanti son gli uomini ); per la mobilità, sono tutti gli uomini stolti, che sempre si pentono, non mai sono contenti del medesimo, sempre amano ed affettano novità ( che, in una parola, si chiama ‘volgo’, di cui è aggiunto perpetuo quello d’esser ‘ mobile’ ); per lo disordine e la confusione, sono gli uomini che, per tutte queste propietà della materia, ridurrebbono, quanto è per essi, il mondo delle nazioni al cao de’ poeti teologi ( qual è stato da noi truovato essere la confusione de’ semi umani ), e ‘n conseguenza alla vita bestiale e nefaria, quando questa terra era un’ infame selva di bestie (1409).

Per lo contrario, la forma e la mente di questo mondo di nazioni, per la proprietà d’esser perfezione, sono gli uomini che possono consigliare e difendere sé ed altrui, che son i s a g g i e i f o r t i; per l’attività, sono gli uomini i n d u s t r i o s i e d i l i g e n t i; per la propietà d’esser luminosa, sono gli uomini che s’adornano privatamente di lode, p u b b l i c a m e n t e di g l o r i a; per l’indivisibilità, sono gli uomini i qual in ciascuna loro azione o professione sono tutti occupati con t u t t e le potenze e con t u t t a la proprietà: il c a v a l i e r e nell’arti cavalleresche, il l e t t e r a t o negli studi delle scienze, il p o l i t i c o nelle pratiche della corte, ciascun a r t e g i a n o nell’arte sua; per la costanza, sono gli uomini s e r i o s i e g r a v i; per la propietà d’essere ‘lo stesso’, sono gli uomini u n i f o r m i, c i r c o s p e t t i, c o n v e n e v o l i e d e c o r o s i; e ‘n fine, per quelle d’essere ordine, bellezza ed armonia, sono gli uomini che, compiendo ciascuno i doveri del suo ordine proprio, cospirano all’armonia e bellezza delle repubblichecon tutte queste belle v i r t ù c i v i l i, si sforzano di c o n s e r v a r e gli Stati. Il quale sforzo non potendo essi celebrare per loro debole corrotta natura, la provvedenza ha posto tali ordini alle cose umane, che loro il promuovano le religioni e le leggi a s s i s t i t e dalla forza dell’armi. La qual forza incominciò tra’ gentili dalla forza di Giove con le religioni, la quale promosse lo sforzo de’ pochi più robusti giganti a fondare l’umanità. Alla qual forza i pochi forti sono tratti per natura e, ‘n conseguenza, con piacere, perché promuove loro lo sforzo, ch’è connaturale de’ forti; e i molti deboli vi son tenuti dentro a dispetto, perché non dissolvano l’umana società. Ch’ è lo s p i r i t o di t u t t a q u e s t’ o p e r a (1410).

Così, con questi princìpi di metafisica discesi nella fisica e quindi per la morale i n n o l t r a t i all’iconomica, o sia nell’educazione dei giovani, sien essi guidati alla buona politica e con tal disposizione d’animi passino finalmente alla g i u r i s p r u d e n z a ( la qual perciò noi nella Scienza nuova prima proponemmo alle università dell’Europa doversi trattare con tutto il complesso dell’umana e divina erudizione, e, ‘n conseguenza, ponemmo sopra a tutte le scienze ), perché i giovani da erudirsi, così disposti, apparino la pratica di questa Scienza, fondata su questa legge eterna, c’ha posto la provvedenza al mondo delle nazioni: ch’allora son salve, fioriscono e son felici, quando il corpo vi serva e la mente vi comandi; e sì mostrar loro il vero bivio di Ercole ( il quale tutte le gentili fondò ): se vogliamo entrare nella via del piacere con viltà, disprezzo e schiavitù loro e delle loro nazioni, o in quella della virtù con onore, gloria e felicità. IL FINE ” (1411).

E’ evidente che il Vico parte dalla conoscenza concreta degli uomini e delle loro.passioni, di virtù e vizi civili, per organizzare, con precise “figure”, una “fenomenologia dell’errore” e delle varie forme di “operosità”, che vi si oppongono, a questa fenomenologia facendo combaciare la analisi “diagnostica” di “materia” e “forma”, “disordine” e “ordine”. E sono, per la materia: l’esser informe, difettosa, oscura, poltrona, divisibile, mobile e “altro” ( con il comun denominatore d’esser “disordine”, che è definito – si badi – “ingordo di distruggere tutte le forme” ); e per la forma dell’esser sociale e civile: la perfezione, luminosità, attività, indivisibilità, costanza, e la permanenza nello “stesso”. Ancor più notevolmente, in questa “mise à pointe” dell’efficacia della Scienza nuova, si intravedono gli indizi sia del circolo delle forme di attività spirituale, sia dell’irruenza del “vitale” che sempre lo insidia, intervenendo a sconvolgerlo ( incremento dell’ultimo Croce, prosecutore, più che erudito interprete, del Vico ). Fulcro del “circolo” spirituale, come “regina delle scienze”, è la “giurisprudenza”.

“Così, con questi princìpi di metafisica d i s ce s i nella fisica e quindi per la morale i n n o l t r a t i all’iconomica, o sia nell’ educazione dei giovani, sien essi guidati alla buona politica e con tale disposizione d’animi passino finalmente alla giurisprudenza”. Ogni parola del Vico è oro colato. La ‘discesa’ della metafisica nella fisica definisce bene il rapporto tra la ‘teoria’ e la ‘prassi’. L’inoltrarsi della ‘morale’ nell’ ‘economica’, o ‘iconomica’, rappresenta il passaggio tra la sfera di volizione dell’universale e quella delle volizioni del particolare, la cui forma economica è affine a quella pedagogica ( “o sia, l’educazione dei giovani”, dice il Nostro ), ed il cui vertice è istituito nella forma giuridica ( la “giurisprudenza”, ancora una volta al sommo di tutte le scienze ): dunque non in senso limitativo o spregiativo; ma anzi come caratterizzazioni salienti del medesimo campo d’attività e virtù. Ed è sommo acquisto che il Croce vorrà poi sviscerare e dipanare appieno, a più riprese, nel proprio sistema filosofico, la cui “quadripartizione” non sorgerebbe senza la “leva” originaria del “rapporto tra le forme”: un “rapporto tra le forme” che, a sua volta, vede nella smagliante genialità del Vico la iniziale propria giustificazione.

Casi storici di “declino delle nazioni”. Cade, così, il limite di una casistica troppo ancorata all’ esemplificazione particolare, effimera e contingente, per quanto riguarda gli uomini della “materia” e gli uomini della “forma”; dal momento che la fenomenologia ideale eterna, da Vico instaurata, insegna a interpretare dall’interno le modalità, o le ‘guise’, delle crisi ricorrenti, come “analogie dell’esperienza sofistica” ( “1994”. Critica della ragione sofistica, Bari 1997, capo X, XII e XII della Parte seconda, alle pp. 89-99 ).

“Diagnostica”, vale anche : “conoscenza attraverso”, ossia capacità di giudicare le patologie del “declino delle nazioni”, ovunque e comunque interconnesse o complesse e intrecciate, proprio per arrestare il “declino”. “Potenza del linguaggio”, o “Potenza della fantasia”, se si ricorda il bel libro dell’italo tedesco Ernesto Grassi, al capitolo Il rovesciamento del concetto tradizionale del sapere, là dove il critico riesuma il moralista inglese Shaftesbury, che ben contrappone, alla “arguzia intellettualistica” di moda, il tipo del “virtuoso”, vichianamente in grado di sintetizzare “sapere e saggezza pratica” ( nel suo Soliloquy I, 33: “a man of virtue and good sense”: cfr. Ernesto Grassi, Potenza della fantasia (1979), ed. it., Guida, Napoli 1990, pp. 221-237 ).

Per restaurare il “bisogno di diritto”, o come io preferisco dire “l’insistenza del giuridico”, è doveroso rintracciare le “guise della prudenza”, in grado di efficacemente “lottare” contro il male nella storia ( v. Santo Mazzarino, Vico l’annalistica e il diritto, Napoli 1971; Serenella Armellini, Il bisogno di diritto, in ‘Et si omnes’.Scritti in onore di Francesco Mercadante, Giuffré, Milano 2008, pp. 2-18; Sergio Cotta, Perché la violenza ? Una interpretazione filosofica, Japadre, L’Aquila 1978; Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, ed. it., Milano 1975; Giuseppe Brescia, Tempo e Libertà. Teorie e sistema della costruttività umana, Lacaita, Manduria 1984 ed I conti con il male.Ontologia e gnoseologia del male, Laterza, Bari 2015; Marc Fumaroli, Le api e i ragni.La disputa degli Antichi e dei Moderni, ed. it., Milano 2005 ).

Francesco De Sanctis ( Morra Irpinia 1817 – Napoli 1883 ), ‘vichiano-ultravichiano’ di genio, anticipa alcuni nostri nuclei fondanti. Senza fronzoli, ma vastamente e precisamente, espone il programma di ricerche su Vico e la sua formazione, precorrendo di un settantennio vent’anni di cattedre universitarie in erudizione storica, storia della filosofia o “eloquenza”. Senza fronzoli, va diretto al cuor del problema. Definisce la “fucina del mondo”, per il “va e vieni”, il “tempo oscuro alla critica”, a proposito della poesia di Dante giovanile, gettando le basi per il suo fondamento , la “dialettica delle passioni”, l’urgenza e l’ufficio del “passaggio” tra le forme. Nel capitolo La Nuova Scienza della sua Storia della letteratura italiana ( vol. II, Einaudi, Torino 1958, ed. Gallo-Sapegno, pp. 815-824 in:737-852 ), chiarisce bene: “L’importante non è di osservare il fatto, ma di esaminare come il fatto si fa. (..) L’idea è vera colta nel suo farsi. Il pensiero è moto che va da un termine all’altro, è l’idea che si fa, si realizza come natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto”. Mescola l’idealismo di Schelling ed il sistema di Hegel, il De Sanctis; comunque sempre con attinenza a Vico, e alle “guise” della mente umana.

Ora, poiché nella citata Conchiusione dell’Opera, ai paragrafi 1105-1108, stupendamente Vico sancisce che la “barbarie della riflessione” rende gli uomini “fiere” e “dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi”; e poco oltre critica “sì fatta riflessiva malizia”, potentemente così ci affida la traccia – modernissima – per riconoscere le “analogie dell’esperienza sofistica”. Se la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero, abbiamo seguito dagli anni Novanta del secolo scorso ( ‘1994’ ) l’analisi patognostica del declino, giovandoci della testimonianza di Luigi Sturzo, a sua volta risalente al 1950.

Si hanno, allora: -Primo meccanismo della Prima serie dei fenomeni interpretati e descritti. – C’è cattiva amministrazione statale. -Secondo meccanismo. – Vi sono i baroni e i briganti o i pirati che si sostengono grazie a codesta inefficienza pubblica. -Terzo meccanismo. – Gli operai stessi pensano che, se non paga l’imprenditore, paga lo stato. Subentra una seconda serie di processi degenerativi, maliziosamente voluti e non solo subìti dalle forze sociali. -Primo meccanismo di questa nuova sequenza. – L’imprenditore usa l’arma dei sindacati e scioperi per ricattare ministri e condizionare governi. -Secondo meccanismo. – Cresce in maniera esponenziale la manomorta pubblica. Terzo: – Il disfacimento economico si fa etico-politico, sino a toccare il fenomeno del parlamento apparente, sintomo della perdita effettiva della libertà. Ancora, si forma un Terzo procedimento di “malnata sottigliezza” o “riflessiva malizia” ( direbbe Vico per la “barbarie della riflessione” ), e di “ragion sofistica” ( direbbe Sturzo nella stagione “orwelliana” del linguaggio capovolto o ‘bis-pensiero’ ): -Primo meccanismo di questa Terza sequenza di riflessioni della crisi nelle dinamiche culturali. -Si stabilisce la fase dialettica cumulativa della idea di progresso, con allargamento della corruzione e della manomorta statalizzata. -Secondo meccanismo ulteriore: – Si determinano danni psicologici più gravi, in conseguenza del parassitismo e dell’ibrido ircocervo pubblico-privato. Terzo momento, infine: – Si approda, o rischia di approdare, di nuovo, al declino delle istituzioni, alla vanificazione della democrazia e alla perdita effettiva della libertà ( cfr. Luigi Sturzo, “La Via” di Palermo del 6 ottobre 1951; Giuseppe Brescia, ‘1994’.critica della ragione sofistica, Bari 1997, pp. 89-91 ).

Mutato il dovuto, la analisi veramente “d i a- g n o s t i c a” di Sturzo si raffronta con le procedure indagate da Antonio Rosmini ( 1° ‘ mutazione delle forme dialettiche ‘; 2° loro inoltramento a livello coscienziale e morale; 3° falsa idea di progresso cumulativo e rettilineo ); Croce e Franchini ( 1°: l’errore come ‘sofisma’ scientemente voluto e praticato; 2°: Sua diffusione sociale e civile, massiva ed influente; 3°: Illegalità legalizzata, ne Il sofisma e la libertà ); Talmon ( 1°: ‘Democrazia roussoviana’; 2°: ‘Parlamento apparente’ e 3° momento, come sbocco nella Democrazia totalitaria ). Insomma, il pensiero moderno, sviscerando in forme non dissimili il corso delle nazioni e il rischio incombente del loro declino, vichianamente ha saputo affisare le modalità o le guise della maliziosa “sottigliezza”, della “barbarie ricorsa”, mai ripetitiva – si badi – in quanto ben peggiore della prima barbarie, la “barbarie del senso”.

In generale, per l’Occidente, il “declino delle nazioni” può attuarsi anche per lo schema ( 1°: ‘Lotta continua’; 2°: Sua introiezione psicologica a livello di ‘modello’ o exemplum condizionante; 3°: Estensione capillare dei valori ‘capovolti’, ‘enantio-dromia’, con eventuale successo ricorrente della teoria e prassi di ‘lotta continua’ e, in definitiva, perdita e ‘fuga dalla Libertà’). Esposi questa analisi patognostica fin nel capo XI.’Il male è sempre lo stesso; è il bene che si diversifica’ della Parte seconda di ‘1994’, cit., 1997, pp. 93-99 ), tornandovi sopra a più riprese, con rinnovato assillo, fino all’ultima sintesi de I conti con il male ( Bari 2015 ).Secondo Enzo Paci, “Il ricorso della barbarie nel medioevo rientra come problema filosofico nella questione già trattata della natura come spazio amorfo, disordine, violenza. La ‘barbarie seconda’ è analizzata e compresa con lo stesso metodo che aveva reso possibile la comprensione della prima. Anzi, l’analisi è qui più difficile giacché Vico si trova di fronte non all’ ‘inizio dei tempi’ ma a un ‘nuovo’ inizio che non sarebbe stato comunque possibile senza la storia che l’ha preceduto. In un certo senso, anche da questo punto di vista, ‘i tempi della barbarie seconda’ sono ‘più oscuri’ di quelli della barbarie prima” ( Capo IX di Ingens Sylva, Bompiani, Milano 1994, pp. 168-179; Donald Phillip Verene, La filosofia e il ritorno alla conoscenza di sé, ed. it., Vivarium, Napoli 2003, I. La barbarie della riflessione, alle pp. 35-76, e A. Robert Caponigri, Time & Idea. The Theory of History in Giambattista Vico, Transaction Publishers, New Brunswick and London, 2004).

“Il compito della civiltà consiste nell’assicurarsi che noi riduciamo la violenza. Se ciò non è chiaramente stabilito, ci troviamo in grave pericolo”, per parte sua ammonisce Karl Popper ( cfr. “La Repubblica” del 28 luglio 1992, in Giuseppe Brescia, La creatività e le crisi, “Oggi e Domani”, XXII/1-2, gennaio-febbraio 1992 e Karl Popper e il pùngolo della libertà, Editrice Salentina, Galatina 1995 ). La maggior difficoltà d’analisi della accresciuta violenza, e della barbarie della riflessione che la riassume, comporta il soccorso delle “analogie dell’esperienza”, ragionate da Immanuel Kant nella Analitica dei princìpi ( Critica della ragion pura. Logica trascendentale. Parte seconda, del 1781, nella ed. Gentile-Mathieu, Bari 1958, pp. 200-205 ). Se Kant nella “Prima analogia” aveva mostrato il ‘Principio della permanenza della sostanza’ con la formula: “ In ogni cangiamento dei fenomeni la sostanza permane, e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce”; ora invece la diffusione del male e il ricorso della barbarie seconda comportano che: “In ogni cangiamento dei fenomeni prodotti dall’esperienza sofistica la quantità di male introdotta nella natura ( come storia) può anche aumentare”.

Per la seconda “analogia”, Kant mette a fòco il ‘Principio della serie temporale secondo la legge di causalità’, con la formula: “Tutti i cangiamenti avvengono secondo la legge di causa ed effetto”. Ma adesso, nella età della barbarie ricorsa e dell’accresciuta maliziosità, bisogna dire: “ Tutti i cangiamenti avvengono secondo effetti moltiplicativi, i cui effetti diffusivi riescono generalmente imprevedibili”.

Infine, per la “Terza analogia”, fondata sul ‘Principio della simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o reciprocità’, vige la regola kantiana: “ Tutte le sostanze, in quanto possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono tra di loro in una reciproca universale”. Ma oggi e dopo, ancor oggi e ancora dopo, cioè nella età dello smarrimento distorsivo delle coscienze, si mantiene bensì il principio generale della reciprocità, ma in un quadro complesso che lo rende più insidioso e maligno: “Tutti gli accadimenti ( non già mere ‘sostanze’ ), in quanto possono esser percepiti nello spazio come simultanei, sono bensì tra loro in una ‘reciproca universale’, ma in una ‘reciproca’ di cui sfuggono le catene causali infinite” ( ‘1994’.Critica della ragione sofistica, cit., pp. 97-99 ). E’ questo il pathos del nostro tempo:- ‘Eterogenesi dei fini’; conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali; telematica; informatizzazione; allargamento dei conflitti e processi di destabilizzazione bancaria, economico-finanziaria, giuridica, istituzionale, amministrativa e scolastica; fondamentalismo e fanatismo; spaccio trionfante di disvalori per valori: di fronte a cui bisogna lottare duramente ( insegna Vico ) per restaurare il “senso comune” e ridare impulso al “ricorso”, giovando la tradizione cristiana e umanistica.

“Perché questa è la natura de’ princìpi: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare” – così s’avvia a conchiuder la sua opera Vico, anticipando il Croce di Perché non possiamo non dirci cristiani in un passo malnoto – “E tutto ciò in forza della cristiana religione, ch’insegna verità cotanto sublimi che vi si sono ricevute a servirla le più dotte filosofie de’ gentili, e coltiva tre lingua come sue: la più antica del mondo, l’ebrea; la più dilicata, la greca; la più grande, ch’è la latina. Talché, per fini anco umani, ella è la c r i s t i a n a la m i g l i o r e di tutte le religioni del mondo, perché unisce una sapienza comandata con la ragionata, in forza della più scelta dottrina de’ filosofi e della più colta erudizion de’ filologi” ( § 1093-1094 della edizione Nicolini ).Il fondamentale Isaiah Berlin, preoccupato di distinguere “relativismo” da “pluralismo” e di smontare le pretese totalitarie dell’utopia assouta ( “Alla ricerca dell’ideale”, del 1988, “Nuova Antologia” n. 123, aprile-giugno 1988 e Le idee filosofiche di Giambattista Vico, a cura di Antonio Verri, Armando, Roma 1996, pp. 175-191; già Vico e Herder, Roma 1978 ), rispondeva alla critica di Arnaldo Momigliano, ritrovando “un mondo di valori oggettivi”, ma nel contemperamento di ‘Giustizia’ con ‘Pietà’ ( già in Vico del De constantia ) da una parte, e dei trade off, “regole valori e princìpi” che “devono sottostare, in situazioni specifiche, a concessioni reciproche”, dall’altra parte. Vicino a Weber e Bobbio in linea generale, Berlin non si pone espressamente il tema della “barbarie della riflessione” e della “maliziosità sottile” della stagione che prepara il “declino delle nazioni” ( tema ben presente in Croce e Nicolini, Joyce e Beckett, Pons e Verene, Corsano e Verri, Sasso e Paci), tutto inteso – il testimone di Riga – a una personale “uscita di sicurezza” dalle dittature novecentesche ( “il legno storto dell’umanità”; la “frittata” che distrugge le “uova” ).

Oggi, forse, il tema della “generazione” ( categoria storiografica squisitamente desanctisiana ) è proprio quello dell’antitesi tra “sofisma” e “libertà”, del paesaggio orwelliano postmoderno, del capovolgimento ( più ancora che disfacimento ) dei valori, dell’ “Anticristo che è in noi” e della “Fine della civiltà” ( Croce ) o della “enantiodromia” ( Jung ). O, forse meglio, stiamo parlando di due sfaccettature di una stessa medaglia, come della difficile eredità trasmessa dall’una all’altra generazione, tra “padri e figli”.

Vediamo allora alcuni esempi emblematici della “crisi”: la “strana crisi italiana”; la crisi dei sistemi economici contrapposti; la liceità d’indebitamento nel sistema finanziario e bancario; “Le leggi son, ma chi pon mano ad elle ?”; il caso della “brexit”, uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea formalmente intesa; il disastro ferroviario italiano, al paragone del “terremoto di Lisbona” di volterriana memoria.Tutti questi casi ( ove non dipanati concettualmente e storicamente; né affrontati giuridicamente con la “coerenza” degli “atti” ) portano al “declino delle nazioni”: Vico e noi, per vie insospettate.La “strana crisi italiana”. Non basta più dire “Europa”, come nel nobile “Epilogo” alla sua Storia del ’32 prevedeva il Croce ( “ a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’ Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate” ); ma bisognerà dire quali modalità per gli effettivi poteri del Parlamento europeo ( non per la pleonastica doppia sede a Bruxelles e Strasburgo, per la Commissione e la Banca Centrale, forma di “nuovo sopraggoverno”, giusta la immagine del fine critico Geno Pampaloni ). Non basta dire “concorso” per docenti; ma quali le “modalità” di selezione. Non basta dire “prove Invalsi”; ma quali le cifre tra ideologia e tecnocrazia che si pongono in essere sotto codesta modalità di valutazione delle istituzioni scolastiche ( nuovo “ircocervo” degli anni Duemila). Né basta dire, per un verso, “Welfare”; ma bisognerebbe aver netti i possibili o reali passaggi del sistema economico “statalistico”: come la liceità d’indebitamento, la concezione della cosa pubblica come terreno di conquista e la conseguente fenomenologia di malversazioni e reati. Né basta dire, per l’altro riguardo, “Mercato”; ma occorre aver altrettanto chiari i passaggi evolutivi in senso degenerativo, virtuali o effettuali che siano, del “liberismo”: come nei rischi di “de-regulation” ( crisi del 2008 della finanza, prima statunitense poi planetaria ), “dittatura finanziaria” e – nuovamente – “reati”, cui la “costanza del diritto” è chiamata a opporsi ( v. “La strana crisi italiana”, XXIX Convegno Nazionale del CIRGAS, per il coordinamento di Angelo D. De Palma, L.U.M. di Trani – Bari,, del 19-20 ottobre 2012 ). Dove quel che non può esser omesso è propriamente il “primo passaggio”, che apre la via – in entrambi i versanti ideologici astrattamente intesi – ai reati. E’ il concepire lo Stato come “papà Pantalone”, la cosa ‘di tutti’ come “res nullius”, e cioè autorizzazione implicita all’indebitamento, che porta alla corruzione e ai reati, una volta introiettato sistematicamente il progetto ‘statalistico’, presunta legittimazione di malversazioni della cosa pubblica. D’altra parte, è il concepire il “Mercato” per una totale “assenza di regole”, che conduce – ancora – a malversazioni o reati. Per ciò stesso, il “new deal” liberale – nell’era di ‘globalizzazione – consiste nel ripensamento non soltanto delle “categorie” di pensiero: ma anche, e specialmente, delle modalità attuative, dei nuovi “modi” regolativi, all’altezza dei nuovi compiti e nuovi problemi: di cui il “diritto” è forma.

Liceità d’indebitamento e occupazione della res publica. I modi categoriali, le “guise”, sono importanti come nella vita dello spirito, così nei rapporti tra stati e sistemi macroeconomici. Sono la “frontiera” epistemologica del dialogo, della universalità del diritto, del “ricorso” atto a evitare il declino. Ma la cancerosi burocratico-parassitaria ha anche altra genesi: la occupazione delle casamatte della società civile, preconizzata in parte da Antonio Gramsci. Si badi allo scandalo, o coacervo di scandali, offerto dalla Fondazione Monte Paschi, che impedisce l’apertura al mercato per gestire in maniera esclusiva il proprio potere di controllo sull’Istituto e sugli Enti, attraverso poteri regionali e locali ma anche cattive amministrazioni di investimento in assicurazioni e banche parassitarie e conseguente strutturazione di fondi “derivati”, a danno del risparmiatore e cliente; o allo scandalo detto della operazione “Re Nero” di San Marino, con riciclaggio di liquidità di sospetta provenienza; o magari alla vendita a privati, meglio istituti bancari, delle quote della Banca d’Italia, intercettando così la possibilità di risanare parte dell’ingente debito pubblico italiano attingendo a un quinto delle riserve auree ( giusta proposta del “Linceo” Maurizio Quadrio Curzio ). Il caos amministrativo e la moltiplicazione dei centri di spesa a livello centrale e periferico ( le Regioni aprono proprie “ambasciate” all’estero ) configurano – a proposito della esigenza di riforma della pubblica amministrazione – la immagine del Barone di Munchausen che, avvinto da lacci, non riusciva a sollevarsi dal suolo, nonostante gli sforzi.

Il caso della “Brexit”, o fuoriuscita della Gran Bretagna dal mercato e parlamento europeo. Esempio significativo di opposti limiti delle “guise” o “modalità” d’intervento economico e politico si ritruova, nel fatto che, a seguito del referendum popolare del giugno 2016, non si sono apprestati correttamente tempi e modi della uscita da parte della Gran Bretagna ( “Brexit”, esattamente ), con riferimenti a privilegi ottenuti e consolidati, vantaggi nella regolazione dell’immigrazione, posti apicali e seggi conquistati in Commissione e Parlamento europeo . D’altro canto, non si eliminano errori e storture dell’apparato burocratico europeo, o della cosiddetta Ge-stellung economico-finanziaria, non senza abuso di pedissequa legislazione su forme e usi del vivere civile dei vari paesi aderenti. Ecco, allora, che in difetto di “costanza della giurisprudenza” si avvia e consolida il “declino delle nazioni”; Dio non voglia ( direbbe Sturzo ), la “profezia” negativa del “tramonto dell’Occidente” . Orazio, nell’ Ars Poetica ( che piaceva anche a Vico ), dice “In vitium ducit culpae fuga”: ossia,“Fa cadere nell’ errore opposto l’aver scansato una colpa”. “Le leggi son; ma chi pon man ad elle ?”

‘Le super truffe delle banche restano senza colpevoli’, notano gli economisti ( “Il Giornale” del 22 agosto 2015 ). Le superbanche italiane ed estere, manipolati i tassi di interesse e i cambi, continuano nella sottile malizia delle operazioni, dal momento che, anche se subiscono copiose multe in sede giudiziaria, e chiudono i patteggiamenti per precedenti manipolazioni ( “l’osservatore influenza la realtà osservata”, assioma epistemologico universale ), ‘pagano e resistono’. Gli investitori vengono colpiti; e la multa può considerarsi alla stregua di ‘un premio assicurativo pagato per continuare a fare affari’. Tutto ciò accerta la mia teoria circa il criterio delle “guise” (Vico), il rispetto dei principi “regolativi” ( Kant ) o “modi regolativi” ( new deal liberale ). Non si applicano le leggi sulla pubblicazione degli iscritti a lobbies e logge, sovraintese a operazioni spericolate, manipolazione di tassi d’interesse, ristrutturazione di fondi “derivati”, artatamente impostati in perdita ( Monte Paschi, Antonveneta, e via ). “Le leggi son; ma chi pon mano ad elle ?”

Il disastro ferroviario in Puglia. Si licet parva componere magnis, spontaneo s’impone tragico raffronto tra il 1° novembre 1755, data del terremoto di Lisbona, che scosse la coscienza europea e provocò Voltaire al suo filosofico “Poema” confutatorio dell’ottimismo leibniziano, e altra data fatale, il 12 luglio 2016, di eco vastissima in Italia ed Europa, America, Giappone e Cina, Paesi Arabi e tutti gli altri continenti, per lo scontro tra due treni in Puglia, a velocità altissima, tra le stazioni di Andria e Corato, nella curva della assolata campagna pugliese, della Ferrovia Bari Nord. Diverso il numero delle vittime ( circa tremila per la Lisbona del settecento; ventitré morti con cinquanta feriti gravi, tra le lamiere contorte e i vagoni fitti l’un nell’altro, nell’incidente del Nord-Barese ). Catastrofe naturale, il primo; tragedia provocata dagli uomini, la seconda. Quanto mai distanti i periodi storici, gli aspetti antropologici e socioeconomici. Ma analogo può essere il ‘problema’, la sfida posta al pensiero, la provocazione forte di fondamento epistemologico per la comprensione dell’accadimento e la risposta affidata alle “guise della prudenza”, alle modalità d’intervento e d’analisi. Paradigma della presenza del male nella storia; o della complessità della malizia sottile propria della “barbarie della riflessione”, rispettivamente.

Molti dati vanno tenuti presenti simultaneamente, disaggregati e poi ricomposti ai fini della comprensione “diagnostica” della tragedia. E ci serviamo degli atti e fonti di stampa oramai pubbliche. Anzitutto la Ferrotramviaria, che gestisce la linea Barletta – Bari, è azienda privata e non pubblica. Il paradigma “liberistico”, invocato per correggere l’errore opposto dello “statalismo”, evidentemente non regge. Il paradigma dei “modi”, delle “guise”, dei “princìpi attuativi” e “regolativi”, invece sì. Non è il “sistema” astrattamente inteso di gestione, a garantire di per sé la bontà del servizio; ma il “come” esso viene praticato in concreto. E per controllare il “come”, occorre attuare la “costanza della giurisprudenza”, punto per punto, palmo a palmo.
Ma le origini della società sono state nelle mani del conte di Costafiorita Ugo Pasquini, innamorato della Puglia fin dagli anni Trenta del secolo scorso: “già nel 1931 tra i principali azionisti e fondatore delle Ferrovie del Sud-Est, oggi divorate dagli scandali per le consulenze d’oro dispensate a piene mani. (..) Lo Stato tiene per sé il controllo della sicurezza, e questo non mancherà di far discutere sul ruolo del dicastero guidato da Graziano Delrio: la vigilanza è affidata all’ufficio speciale trasporti impianti fissi, organo periferico del ministero delle Infrastrutture, ma non all’Agenzia nazionale per la sicurezza delle Ferrovie, soggetto tecnicamente indipendente rispetto agli operatori del settore del trasporto ferroviario. Il resto, invece, è tutto saldamente nelle mani dei Pasquini” ( cfr. Gianpaolo Iacobini, Quel black out tra capostazione e macchinista, “Il giornale”, 13 luglio 2016, pp. 2-3 ). Dal 1937, data di nascita della Ferrotramviaria, in poi, il conte Enrico Maria Pasquini non figura più tra gli azionisti. “Ma a tirare le fila ci sono sempre i Pasquini (..), perché la moglie del conte, Clara Nasi, possiede il 12,7 per cento delle azioni, mentre la sorella, Gloria Maria Pasquini, è alla guida della società” ( Riccardo Pelliccetti, L’azienda modello di efficienza fra paradisi fiscali e Agnelli, “Il giornale”, 13 luglio 2013, p. 5 ). Dalle stesse fonti si apprende che il conte apre “la sua prima fiduciaria a San Marino. (..) Gli investigatori nel corso della lunga inchiesta hanno scoperto un giro di trasferimenti di capitali tra l’Italia e vari paradisi fiscali e penali. (..) Ma la rinuncia al passaporto non ha significato la fine degli affari. Il sistema Smi ha continuato a funzionare grazie al cognato Andrea Pavoncelli. Un’intesa che si è concretizzata con la United Investment Bank, nel paradiso fiscale di Vanuatu, che ha servito da schermo per i numerosi bonifici fra Italia e San Marino. E i pubblici ministeri che hanno in mano l’inchiesta per truffa al Monte Paschi hanno individuato un passaggio di 1,4 milioni di euro partiti da Vanuatu e arrivati al manager di Monte dei Paschi di Siena Alessandro Toccafondi, scudati mediante la Smi di San Marino e la controllata italiana Amphora, entrambe società del conte. Toccafondi era il numero due di Gianluca Baldassarri, capo dell’area finanza di Monte Paschi di Siena, arrestato dalla magistratura di Siena, che a sua volta ha scudato 14 milioni di euro” ( cfr. “Il giornale”, cit.,13 luglio 2016, ibidem; “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Bari, 13 luglio 2016, pp. 4-8). Gli spiacevoli dettagli riportano al problema cruciale “Le leggi son; ma chi pon man ad elle ?”; alle malversazioni e consorterie, sul cui carico ( a volte comico, ben più spesso tragico ) padre Dante ridirebbe “Lascia pur grattar dov’è la rogna !” La linea ferroviaria Bari – Barletta era interessata al raddoppio e alla relativa messa in sicurezza, con la completa installazione del sistema automatico da Barletta a Ruvo,tratta per il momento soggetta al sistema obsoleto del “consenso telefonico”, suscettibile di incomprensioni ed errori umani, anche per fattori imprevedibili ( motivi di salute, malori, errori nelle comunicazioni di ritardi improvvisi, ed altro). I Fondi sono, però, europei: con la specie di autorizzazioni e pareri preventivi, slittano dal 2006-2013 al 2014-2020 ( Fesr sotto la amministrazione Vendola, poi Emiliano, della Regione Puglia ). Lo sdoppiamento del “Grande Progetto” ( costruzione della stazione di Andria Sud; e raddoppio del binario fino a Bari con adeguamento dei sistemi di sicurezza ) è dettato all’Europa dalla “Vendetta del Governatore” ( “L’Oblò”, Anno II, N. 6, 28 marzo 2014; E’ arrivato un treno carico di..ritardi, “L’Oblò”, Anno II, n. 7, 14 aprile 2014 ).

Il Comune limitrofo di Trani ci mette un anno per autorizzare lo sdoppiamento della linea tra Andria e Corato nella tratta di sua competenza ( Cfr. “Grande Progetto” sul sito della Ferrotramviaria e “BatInforma”, del 6 marzo 2016). Fatidicamente, la data per l’apertura delle buste della gara d’appalto è spostata dal “Governatore” Emiliano al 19 luglio 2016 ( e dalla Ferrotramviaria, diretta da Massimo Nitti, nella sede di Roma, al 26 luglio: v. articoli su “Gazzetta del Mezzogiorno” del 13, 14, 15 e 16 luglio 2016 ). Il tragico incidente è del 12 luglio ( alle soglie dell’antivigilia della gara ). A più di un mese dall’evento, le buste non sono state più aperte; la sicurezza sui tratti interessati, inesistente; la ‘ferita’ sul paesaggio, l’ambiente, l’economia, immane.

Per lo meno strano, il “sincronismo”: altrettanto anomale, le condizioni e situazioni che hanno determinato la fatal serie di errori ( cfr. Massimiliano Scagliarini, ‘Faro’ della Procura di Trani sull’operato della Regione, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 16 luglio 2016, p. 8; Massimo Malpica, La Procura di Trani indaga, “Il giornale”, 16 luglio 2016, p. 21 ). Alle ore undici del 12 luglio, il treno Et1021 parte da Andria, con il via libera del capostazione Vito Piccarreta ( Intervista alla “Stampa” di Torino del 14 luglio ), tratto in inganno dal fatto che vede arrivare in stazione, dal senso inverso, il treno Et 1642, in realtà nato a Ruvo di Puglia, e di qui partito con un ritardo di 8 minuti, poi cresciuti a 23 ( per effetto della coincidenza subìta a Corato ). Ma da Corato è frattanto partito il treno in orario regolare Et 1016, con il via libera del secondo capostazione, il coratino Alessio Porcelli. Donde lo scontro ad altissima velocità dopo una curva nella campagna pugliese, alle ore 11.06 circa, con i segnali telefonici trasmessi in ritardo di pochi, ma fatali, minuti. Nessuno indaga sul perché del ritardo del terzo treno, a tragitto limitato ( da Ruvo ad Andria ) né interpella il “terzo capostazione”, della cittadina di Ruvo. Si assiste a un rimpallo di responsabilità tra i dirigenti di Andria e Corato; ma non si approfondisce la genesi dell’errore ( tra le tante, troppe, concause ) e della sovrapposizione dei due treni sullo stesso binario. E’ un caso di sconcertante “complessità” ( da “Una storia semplice”, apparentemente “semplice”, à la Leonardo Sciascia ). Non regge lo schema sociologico del “Sud abbandonato”, il “lontano Sud”, ai margini del mondo e dei processi produttivi ( omelia del Vescovo di Andria Luigi Mansi; commenti e interpretazioni di provenienza ideologica sui ‘media’). Molti fattori di “crisi” sono altrove; molte responsabilità sono regionali o locali, essendoci i fondi in larga misura non utilizzati dei Progetti europei ( Pino Ciociola, “Quella correzione non l’ho fatta io”, “L’Avvenire” di martedì 19 luglio 2016, p. 13 ). E’ ben questo un caso da risolvere con la “costanza della giurisprudenza”, quando ogni fattore di causalità debba esser indagato: ad esempio, se e perché sia stato provocato il ritardo del “terzo treno”, a percorrenza limitata; se e come i responsabili delle tre sedi ferroviarie abbiano interagito correttamente e puntualmente tra di loro; e se no, perché no; e se ci sian state assunzioni recenti da parte della Ferrotramviaria su quelle tratte, in quali modalità e a quale titolo, evia dicendo.

Indagare “in tutte le direzioni” e step by step, con “costanza” e “coerenza del giurisperito”, onde evitare il “declino delle nazioni”: non perché si configuri una “teoria del complotto”; ma anzi proprio perché, indagando, la verità effettuale -accertata- fughi la “teoria complottistica”. Benedetto Croce, alla Costituente, si oppose alla istituzione delle Regioni: “So bene che certe transazioni e concessioni di autonomie sono state introdotte e che, al giudizio o alla rassegnazione di molti, questo era inevitabile per stornare il peggio; ma il favoreggiamento e l’istigazione al regionalismo, l’avviamento che ora si è preso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e inisperimentate istituzioni regionali, è pauroso” ( “Sulla discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana”, seduta pomeridiana dell’11 marzo 1947, ora nei Discorsi parlamentari, a cura di Michele Maggi, Senato, Roma 2002, pp. 183-188 ).

Veramente “pauroso” ( crocianamente ), o come “declino della nazione”, per la ritornata “barbarie della riflessione” ( vichianamente ), è oggi il punto e modo della amministrazione pubblica italiana.

La memoria storica sùbito corre al rogo del 27 ottobre 1991 del celebre Teatro Petruzzelli di Bari ( inaugurato nel febbraio del 1903, di proprietà della famiglia Messeni – Nemagna, faticosamente e dispendiosamente ricostruito nel 2009, con pubblica condanna dell’amministratore Ferdinando Pinto, nullatenente, per non aver assicurato il Teatro, e spese di registrazione degli atti giudiziari intieramente a carico della famiglia proprietaria ) . Emiliano, sindaco pro-tempore della città di Bari, fa rilievi sulla criticità dello stabile ( 2002-2004 ). Commissario speciale è nominato Angelo Balducci, con il collaboratore De Santis, poi denunciati per malversazione. L’aggravio di spesa è del 158 %, con buco di bilancio di 13 milioni di euro. Il Comune di Bari recepisce il teatro come “custode” nel settembre 2009; ma ne dispone sulla base di una “artificiosa triangolazione di verbali” tra Soprintendenza, Ministero e concessionario dottor Balducci”, in base all’art. 5 della iniziale “Convenzione di concessione del suolo” ( cfr. Enrica Simonetti, Il teatro riaperto a dicembre 2007 ? Pura illusione, “Gazzetta del Mezzogiorno”, 8 ottobre 2006; “Repubblica” – Bari, 28 gennaio 2014 ).

La “barbarie della riflessione” in Donald Verene e altri teorici:economia ed etica.
Che cosa ci entri, il Vico, in tutto questo ? Lo Stato, cioè i cittadini, hanno impegnato circa trentuno milioni di euro; i veri responsabili non hanno pagato; con ulteriori stratagemmi, malaffare e interpretazioni sofistiche delle “convenzioni” o “pattuizioni” tra privati e enti pubblici, l’Ente Comune è messo nella condizione di ridisporre del Teatro; la cui rinnovata “Fondazione” è affidata nelle mani di un fortunato intellettuale organico. E’ un tipico caso della “barbarie della riflessione”: là dove – per la geniale Conchiusione viciana – “vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso” ( § 1106 Nicolini ).

E non è a dirsi che la “sicurezza” – in quanto tale – fornisce la chiave più potente della lettura dei vari incidenti e misfatti. Dopo lo scandalo del Petruzzelli, ci fu lo strazio della Fenice, nobile Teatro di Venezia: “La Fenice non c’è più !” – “La Fenice scandalo italiano”. Nel gennaio del 1996, il gioiello della storia dell’architettura e dell’arte musicale viene distrutto da un incendio doloso: ma, paradossalmente, proprio nel mentre viene attuata la “messa a norma” degli impianti, grazie a una dispendiosa “consulenza per incendi” a Venezia, con costi di oltre un miliardo e cento milioni di lire, dovuti al “protrarsi dei lavori”, sotto specie di fittizia “cultura della legalità” ( cfr. Piero Buscaroli e Adalberto Falletta, “Il giornale” del 31 gennaio 1996; con Giuseppe Brescia, “1994”.Critica della ragione sofistica, Bari 1997, p. 111, dopo Ethos e Kratos. Lettere aperte sulla crisi, Bari 1994 ). E’ l’astuzia del male, la “malnata sottigliezza di ingegni maliziosi”, che occorre combattere, oltre i singoli “contenuti”, i singoli “accadimenti”, i pur sussistenti “provvedimenti” legislativi ( Facevo gli altri esempi della creazione di un apposito “ufficio crolli” comunali a Palermo; dell’incremento di funzionari negli “uffici tecnici” e uffici “relazioni con il pubblico”, non sempre indizio di efficienza e trasparenza amministrativa; della “legittimazione attraverso la procedura”, così decantata dal sociologo funzionalista Niklas Luhmann, a proposito della dottrina della “complessità” e del “fattore rischio” nella condizione post-moderna ). Donde lo scenario orwelliano da “Illegality is Legality”.La cui “matrice” è nella “Nuova Scienza”, nella “diagnostica” della barbarie ricorsa, del Nostro Autore ( Alt-Vater, davvero !).

Il problema è, quindi, delle “guise della prudenza”, della “costanza della giurisprudenza” che deve fronteggiare la “barbarie della riflessione”, l’ “astuzia del male”. Non è importante, tanto, la “messa in sicurezza” degli impianti ( Bari, Venezia ) o delle tratte ferroviarie ( Bari-Barletta ); quanto chi la attua, e come la attua, e perché, o in quali guise e in quali modi. Restituire spazi al “senso comune”, al “ricominciamento”, è sempre più difficile. Constatare il “declino delle nazioni”, quasi ordinario.
I corsi e ricorsi storici di Vico non sono la mera ripetizione dei cicli, attraverso il succedersi delle forme di governo, come in Polibio ( di cui diceva Vico, “quanto poco abbia meditato sulle loro mutazioni”); né la concezione naturalistica dei Discorsi I,2 del Machiavelli che ammette: “ Quando l’astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno dei tre modi ( peste, fame e inondazione, oltre quelli umani delle nuove religioni e linguaggi), acciocché gli uomini, essendo divenuti pochi e battuti, vivano più comodamente e divengano migliori”. Né corrisponde alla profonda e articolata dottrina vichiana, “l’eterno ritorno dell’eguale” di Federico Nietzsche: perché la teoria vichiana contiene l’elemento di novità, e novità peggiorativa, rispetto alla “barbarie del senso”, o “prima barbarie”, della “malizia riflessiva”, concepita non più naturalisticamente ( come in Polibio e Machiavelli ), bensì eticamente e storicamente ( v. B. Croce, I ricorsi, nella Filosofia di Giambattista Vico, cit., cap. XI; Fausto Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico, Bari 1932 e La religiosità di G.B. Vico, Bari 1949. Accenna al tema Gennaro Sasso nei suoi molti studi su Niccolò Machiavelli, Bologna 1980, p. 371; Tramonto di un mito. L’idea di ‘Progresso’ fra Ottocento e Novecento, ivi 1984; Il progresso e la morte, ivi 1979, pp. 11-15: La doppia nascita del diritto, sul Libro V del De rerum natura di Lucrezio, paragonato all’ “erramento ferino” di Scienza Nuova, I. 141 ) .

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, accompagnando puntualmente i passaggi della incipiente “crisi” ( o, ch’è lo stesso, delle nuove manifestazioni della ‘crisi’ ), Verene dava una pregevole interpretazione epistemologica della “barbarie della riflessione” ( comparando Vico a Cartesio, Bacone, San Tommaso, Locke, Kant ed Hegel: La filosofia e il ritorno alla conoscenza di sé, ed. it. Vivarium, Napoli 2003, pp. 35-76 ); mentre, per la mia parte, propendevo per l’attualizzazione etico-politica delle maglie del retaggio vichiano-crociano ( Ethos e kratos; “1994”). Certo, a Donald Philllip Verene non sfugge la portata della crisi: “Nell’età della barbarie della riflessione, dice Vico, ci restano ‘lusinghe’ e ‘ingegni maliziosi’. Questo è un mondo senza paura e senza vergogna” ( op. cit., p. 74 ). “La barbarie della riflessione di Vico non è solo una barbarie della mente e della ragione, ma anche della condotta e della società” ( p. 68 ). “La storia vichiana è l’incubo da cui Stephen nell’ Ulysses cerca di destarsi” ( p. 40 ). Per finire: “ In che modo questa barbarie della riflessione si è affermata nel nostro tempo ? (..) In che modo questa modalità di pensiero è connessa con l’ ultimo malore civile ?” ( p. 42 )

“Nell’edizione della Scienza Nuova del 1730, il brano conclusivo dell’edizione del 1744, sopra riportato, veniva preceduto dalla seguente affermazione: ‘Perché come ne’ tempi della barbarie del senso, così la barbarie della riflessione osserva le parole, e non la mente delle leggi, e degli ordini; con quello di peggio, che quella credeva, tal’essere il giusto, dal quale fosse tenuta, qual suonavano le parole; quella conosce, e sa, il giusto con cui è tenuta, essere ciò, ch’intendono gli ordini e le leggi; e si studia di defraudarle con la superstizione delle parole” ( § 979; Verene, op. cit., p.41: mia la sottolineatura nel testo ). E ancora: “Poiché la riflessione critica, l’intelletto, è incapace di darci la sapienza, o la conoscenza di sé, ci smarriamo in un mondo di diritti, procedure decisionali, leggi positive, che non hanno l’avallo del costume o del carattere” ( Verene, p. 69 ).

Ma non è quest’altra intuizione viciana ( enucleata anche dal Verene ) “gravida d’avvenire”, foriera d’illuminanti anticipazioni,proprio verso il Kant della Metafisica dei costumi,e la matura distinzione tra il quid juris e il quid iustum, sopra riscontrata ? E non è, forse, la confusione del “giusto” con il “suonar delle parole”, o della “giurisprudenza” con la “superstizione delle parole” ( “leggi, ordini”; “diritti, procedure decisionali, leggi positive”, nell’interprete tardomoderno ), alla base della critica rispresa da Italo Mancini del diritto come “incantesimo manipolativo”, critica tesa a scongiurare la “morte del diritto”, ripristinandone “Coerenza” e “costanza” ?

Corrumpere et corrumpi saeculum vocatur, ripete con Tacito il Vico. “Nelle mani dei delinquenti”, rischia di approdare il “declino delle nazioni”. E così l’angoscia e il presentimento dell’ultimo Croce giungono a squadernarsi sotto i nostri occhi.

Misericordia Carità Diritto.
“Questa raffica di carità è un’ultima impostura”, recita Montale in Satura. Il poeta fa intendere, per “raffica di carità”, la insistenza delle dame di San Vincenzo, quel che spesse volte si dice oggi la “misericordia” o “misericordina” . Altra cosa è l’orizzonte trascendentale della “carità”, virtù cristiana e paolina superiore ai “contenuti”, ordinatamente elencati nell’ Epistola 1, 13 ai Corinzi ( il possedere la lingua degli angeli, o la sapienza dei secoli, il risuonare come un cembalo, il dare ai poveri tutti i beni e gli averi ). Ogni applicazione pratica: – “ se non hai la carità nulla Ti giova”. Il regista polacco Kieslowskj pose al culmine del suo stupendo Film blu il commento scenografico della Epistola ai Corinzi. Per essa, sia detto qui di passata, si convertirono al cristianesimo il leader e protestante britannico Tony Blair; il musulmano Magdi Allam. Ora, si pone un problema: – E se la attuale insistenza sulla “misericordia” producesse l’effetto di far passare tra parentesi la superiore virtù della “caritas” ?

E, con questa, e attraverso di questa “informazione”, la virtù civile e la “insistenza del diritto” ? Ecco il punto. Certo, che si evidenzia tutta la “sottigliezza” della operazione dottrinale e mediatica: fino al punto che l’arcivescovo Bruno Forte ha sentito il bisogno di affermare – dalle pagine di “Avvenire” – la diretta continuità tra virtù della “carità” ( con la enciclica di Papa Ratzinger, Deus caritas est) e predicazione della “misericordia” ( programmatica per Papa Bergoglio ). Ma la “sottigliezza” è tipica della teoria e prassi della ‘scuola’ gesuitica. Non più ci sorprende, allora, la ricostruzione delle fonti di Giambattista Vico, compilata da Antonio Corsano nel 1956, attingendo a piene mani ai gesuiti ( Mariana, Suarez). “Per mostrare di che poderosa concretezza sia capace il pensiero e raziocinio del Mariana, basterà riportare questa sua originalissima deduzione della spiritualità del fatto religioso: poiché siamo fatti di corpo e anima, sarà possibile far violenza ai corpi e contenerli in vincoli: ma l’animo fornito di libero arbitrio non potrà esser messo in catene se non sarà avvinto dalla religione: ‘cum tanti recessus in pectore sint’, sarà facile che si pronunzino promesse da mancare alla prima occasione, se non sarà ben fissato e stabilito che delle frodi si ha da rendere conto ai celesti” ( G. B. Vico, Bari 1956, cit., pp. 157-158 ).

L’animo sarà messo in catene solo se “avvinto dalla religione”: ecco qui indicato l’indirizzo di due o più “integralismi”, che “finalmente si integrano” ( Fidel Castro e la Chiesa; la falce e martello e il crocifisso; l’apertura al fondamentalismo islamico; il pregiudiziale rifiuto di riconoscere la “razzia dell’universo”, peculiare alle origini bellicose dell’Islam, e trattata nelle storie d’Europa di Violante o Pirenne; il rifiuto altrettanto sistematico e radicale di riconoscere le differenze tra Vangelo o Nuovo Testamento e Corano ( non esiste un “nuovo Corano”, che abbia smentito le surah 5-10 ); la orrenda definizione dell’Isis, come “Stato islamico che si presenta come violento”; la equiparazione assurda di alcune colpe storiche della Chiesa cattolica, che ci sono state, con le colpe dei “cattolici in quanto tali”, a loro volta comparate alla “barbarie ricorsa” di assassinii, stragi e attentati volutamente e simbolicamente perpetrati con la ‘malizia della riflessione’ , ben peggiore di quella delle “bestie” ( islamiche o altre che siano: v. dichiarazioni di Papa Bergoglio al ritorno da Cracovia, sede della festa mondiale della gioventù, del 1° agosto 2016, dopo l’uccisione in Chiesa e vicino Rouen del vescovo Jacques Hamel, a messa con fedeli ).

“Il presidente boliviano Evo Morales – annota Dario Fertilio – consegna a Papa Bergoglio un crocifisso corredato di falce e martello. Al di là del folclore, l’episodio è rivelatore: testimonia un doppio tentativo di ‘entrismo’… Insufflare, gesuiticamente, un po’ di anima cattolica nella sinistra boliviana, proclamando l’alleanza della Chiesa con tutti i poveri e diseredati del mondo: (.. ) nuova ideologia che sarebbe riduttivo definire terzomondista e antiliberale. Essa contiene i germi di un nuovo integralismo, concime indispensabile per la crescita di presenti dittature e possibili totalitarismi” ( Falce e crocifisso:un nuovo integralismo, “libertates.com”, Milano, 4 settembre 2015 ). Absit iniuria verbis: ‘in volo veritas’, si potrebbe dire con scherzosa serietà, a proposito delle esternazioni ripetute di uno dei nostri pontefici, tese a obliterare i princìpi di legalità e diritto dietro la spessa coltre della indiscriminata ‘misericordia’ , ‘perdono’ e accoglienza’. Fare tabula rasa del passato ( storico, archeologico, intellettuale e giuridico ), come a Palmira o a Tobruk, per la filosofia e il giure romano, la Costituzione e i codici: questo sembra essere il paradigma e programma della tensione verso la cosiddetta “umanità nuova” ( meglio se raggiunta d’intesa con altri integrismi o nomadismi, dal padiglione di Koudelka alla Biennale d’Arte di Vemezia al “ti sferro un pugno!”, come se qualunque critica o attacco satirico alla intolleranza religiosa fosse equiparabile ad improbabili offese alla propria madre ).

“Tutti peccano da ignoranti”, afferma secondo “scuola” gesuitica, in un primo momento, il Vico ( Antonio Corsano, G. B. Vico, cit., pp. 171-172 ). Ma, poi, nel maturo svolgimento dei “Principi della Scienza Nuova”, non sarà più così: esistono la “barbarie della riflessione” e la “malnata sottigliezza di ingegni maliziosi” ( la “riflessiva malizia”, in sintesi ). “Più avanti il Vico motiverà infatti la sua riserva antigroziana.., imputando cioè al Grozio una eccessiva attenuazione del dogma della caduta, con la conseguenza di un eccessivo ottimismo nella valutazione di quegli ostacoli e resistenze di umana e naturale irrazionalità dei quali riesce a trionfare solo la irresistibile azione provvidenziale fondatrice e preservatrice dell’ordine giuridico e sociale” ( riassume ancora una volta felicemente il Corsano, op. cit., Capitolo del Diritto Universale, pp. 146-148 in: 137-200 ).

Vico avvalora “justa et pia bella”; distinguendo, nella filosofia del diritto, jus naturale, jus gentium e jus civile, si richiama al diritto romano e – in sede di filosofia della storia – alle “prescrizioni rituali romane”, base per innesti religiosi sui costumi civili. Segue una illustre docta pietas, di tradizione umanistica; attinge ancora una volta a Cicerone e al suo De legibus: nelle formole Deus caste adeunto o Pietatem adhibento, riconoscendo una maggiore vicinanza alla “condizione originaria d’incorrotta integrità” ( cfr. Scienza Nuova seconda, Volume II, p. 277). Recentemente la dotta Sandra Rudnik Luft, docente alla Università di San Francisco, ha voluto offrire una fine lettura ermeneutica di tipo linguistico e “pre-heideggeriano” di Vico, nel suo Vico’s Uncanny Humanism. Reading the ‘New Science’ between Modern and Postmodern ( Cornell University Press, Ithaca and London 2003 ). Al nostro assunto, di analisi e ricostituzione del “declino delle nazioni” ( fin negli aspetti di tragedia storica ), val meglio l’approccio al Corsano e Paolo Rossi, Pons o Verene ( per tacer d’altri ); ma soprattutto la imperitura lezione a combattere con le armi, che son poi i princìpi, del “diritto”: i “profughi” son detti e riconosciuti tali per effetto della Convenzione di Ginevra, altra cosa essendo clandestini e fondamentalisti, scafisti o terroristi.

Le cellule islamiste scoperte nella ospitale terra di Puglia dalla Procura di Bari – per fare altro indicativo esempio –, nei tre gradi “rituali” di giudizio ( fino alla Suprema Corte ), possono anche risultare “assolte” perché “il fatto non sussiste” ( e tutto ciò non solo ammette, ma consente e autorizza, lo “stato di diritto”, almeno nella nostra democrazia liberale, che qui non si osa certo disattendere ). Ma chi non sente vivo e lancinante il vulnus, così recato alla “constantia jurisprudentis”, nel senso di quella più alta e trascendentale dimensione, in cui il quid justum dovrebbe prevalere sul quis juris ? Ecco il punto ( e la Procura di Bari, pur nel rispetto, si oppone alla Corte di Cassazione, invocando idealmente la “costanza della giurisprudenza” e – nel merito – le varie ragioni di fatto e di diritto, reputate ancora essenziali e attuali ). “Gli stati non si reggono coi padernostri”, insegna Machiavelli ( e Vico, in parte consenziente ), Sopra “misericordia”, la “carità”; e sopra “misericordia” e “carità”, “bisogno del diritto”, “legalità”, ‘Nuova frontiera’ di civiltà. E in questo senso, Vico non è tanto esponente di “Uncanny Humanism”, bensì di “Actual Humanism”. E le “guise della prudenza” arrestano il “declino delle nazioni” in Italia, Europa, o America ( potendosi ripetere la serrata “diagnosi dei mali”, per ogni scenario ). E ci tocca “lottare duramente”, anche con la instancabile chiarificazione concettuale, per riavviare il “ricorso”.

Notevolmente chiudeva la propria “introduzione”, Sul vichiano diritto naturale delle genti, alle Opere giuridiche, Nicola Badaloni, accennando alla “combinazione o incontro di eventi” che materia il certum: “D’altra parte il certum, la auctoritas, non è solo l’evento empirico, ma quella combinazione ed incontro di eventi la cui condizione di possibilità è nello stesso schema del recursus, pur appena abbozzato nel Diritto universale. Il factum non si riduce alla logica del contratto che lo libera da ogni residuo della precedente violenza. Costruendo una sua metafisica, difendendo entro di essa la funzione duplice della violenza ( radice della storia ed in via di progressiva elisione ), Vico tiene a ricordare che la genesi della società non è nella razionalità del contratto. Lo sviluppo della storia mostra un elidersi della violenza, ma anche una resistenza a tale riduzione” ( Opere giuridiche. Introduzione, p. XLI: De constantia jurisprudentis, Capitolo XXVII, par. 6,“Le leggi penali sul male precedono quelle sul danno” e Cap. XXX, par. 33, “Mirabile ricorso delle repubbliche”, alle pp. 634-670: Dalle teocrazie le patrie potestà, dalle patrie potestà le clientele, dalle clientele le repubbliche di ottimati, dalle repubbliche di ottimati i regni veri e propri e le repubbliche libere; e così poi all’incontrario ).

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