“Archetipo” junghiano e “senso comune” vichiano, di Giuseppe Brescia

L’archetipo, forma originaria, principio primo e ricorrente nel mondo dell’inconscio collettivo e dei miti o fiabe d’ogni tradizione e cultura, è “scoperta” di Carl Gustav Jung. “Denomino primordiale l’immagine, scrive Jung, quando essa ha carattere arcaico. Parlo di carattere arcaico quando l’immagine presenta una cospicua concordanza con noti motivi mitologici”. “Questi archetipi, la cui intima essenza è inaccessibile all’esperienza, rappresentano il precipitato del funzionamento della psiche nella serie degli antenati, cioè le esperienze dell’esistenza organica in genere, accumulatesi attraverso milioni di ripetizioni e condensatesi in tipi” ( Tipi psicologici, del 1921 ). Trattandone per esempi di preminente interesse filosofico, si avverte la esigenza di approfondirne il complesso significato. “L’archetipo è un modello innato, facente parte del nostro patrimonio genetico. E’ un simbolo che ci porta a comportarci in un determinato modo” ( Intervista concessa a Richard I. Evans dell’ Università di Houston, Texas, nell’ agosto 1957 ).Nel contempo, per quel che riguarda il “Patriarca” della filosofia moderna e contemporanea ( così, “Altvater”, lo chiamava Wolfgang Goethe ), Giambattista Vico, viene in soccorso la splendida definizione del “senso comune,” o “sensus communis”, ad offrire schiarimento econferma per la nozione archetipale. “Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero” ( Scienza Nuova seconda, del 1744, Libro I.II. XII, Degli Elementi ), “degnità” o “assioma” ( come dice Vico ) che sembra – oggi – non solo avallare, ma sostanziare di ulteriori ragioni, la “scoperta”, o “riscoperta”, junghiana. – “Le idee uniformi e analoghe, fiorite ed espresse presso popoli che non si sono direttamente o indirettamente mai conosciuti tra loro; orbene, tali idee debbono evidentemente avere un motivo comune di vero, o attingere ad un fondo comune di verità”.
Non risulta che Jung citi mai Vico; bensì, Marsilio Ficino, per la versione 1471 del Poimander ( “Corpus ermeticum” ), a proposito della natura “ermafrodita” del divino, evidentemente su un’altra linea interpretativa, che soltanto dopo, in “forza ermeneutica”, è stata prima intravista, poi abbozzata e parzialmente sviluppata ( Cfr. Opere. 11. Psicologia e religione, Torino 1992, pp. 38-39 e n. ). Vico mai compare nelle testimonianze junghiane, fra tutti gli “italiani” associati con scherzosa serietà nel saggio del prosecutore originale James Hillman ( 1926-2011 ), Plotino Ficino e Vico, precursori della psicologia junghiana ( “Rivista di Psicologia analitica”, IV/2, 1973, pp. 1-19 ), saggio che coglie in parte le analogie tra “archetipo” e “senso comune”, “universali fantastici” e caratteri delle “divinità storiche”, ma non altrettanto marcatamente le differenze tra i due ‘giganti’. Dopo di lui, si possono vedere gli spunti di Le Mat – Percorsi, del 2 marzo 2014, Immaginazione e Psicologia del profondo: Hillman interpreta Jung, di Matteo Ficara; e gli Atti del Convegno napoletano Mai perder sonno, sogno, fantasia: Giambattista Vico e Carl Gustav Jung, a cura e con relazione di Alessandro Vitolo e Massimiliano Scarpelli ( Istituto Italiano di Studi Filosofici, 23 Giugno 2018 ). C’ è anche stata una tesi di dottorato della Università di Venezia, di Beniamino Mirisola, La critica come processo d’individuazione. Tessere junghiane nella saggistica di Giacomo Debenedetti ( aa. aa. 2006/2007 e 2007/2008, tesi coordinata e seguita da Giancarlo Alessio e Ilaria Cotti, poi versata in volume, Debenedetti e Jung. La critica come processo d’individuazione, ‘Studi novecenteschi’, vol. 39, Accademia Editoriale, 2012 ), studioso che dichiara di aver consultato Raffaello Franchini ( 1920-1990 ) e Aldo Carotenuto per ragguagli, e dunque trattarsi di una ricerca che affonda le proprie radici in almeno un ventennio di sondaggi precedenti, e istituisce confronti puntuali tra l’ “abito volitivo” e le “passioni” in Croce e i “tipi psicologici” in Jung, ipotizzando In principio fu Vico ? ( pp. 108 sgg. ), nel progetto di Riuscire junghiani senza essere anticrociani ( pp. 111 sgg. ), fino a trattare Archetipi e varianti alla prova del ciclotrone ( pp. 170 sgg. ), il nuovo Glossario ( pp. 186 sgg. ); Tipi psicologici ( pp. 247 sgg. ); L’Ulisse: un monologo dialogico tra Jung Joyce e Debenedetti ( pp. 261 sgg. ). Il Mirisola non conosce, tuttavia, i precedenti miei studi di Tempo e Libertà ( su Croce Vico e Fromm, 1984 ); Teoria della Tetrade ( 2002 ); L’anima e l’Occidente e Filosofia del giusto ( 2000 e 2002 ), Del vitale e Il vivente originario, con i mai intermessi studi e volumi joyciani. Ne riferisco non per ostentazione, ma per restituzione di un clima ermeneutico più comprensivo. Collaborava spesso alla nostra “Rivista di studi crociani”, il critico Elio Gianola, specialmente attento ai rapporti tra critica letteraria e psicoanalisi, trattati anche da Michel David ( La psicoanalisi nella cultura italiana, 1966 ).Mentre suscitava interesse il saggio del giovane Mauro Boncompagni, L’ermeneutica dell’arte in Benedetto Croce ( esempio di metodo di lettura del rapporto tra Croce e Freud ).
Ma c’era nella Bibliografia vichiana di Croce e Nicolini ( Napoli 1948, II, p. 900 ) un succoso riferimento alla comparazione Vico – Jung, contenuta nel saggio di Oreste Macrì ( Maglie 1913 – Firenze 1998 ), L’arte nella psicologia di C. G. Jung con un risguardo vichiano ( “La Ruota”, Roma Terza Serie, IV/4, aprile 1943 – non “1939”, come dicono errando Croce e Nicolini -, pp. 110-116 ).

Il Macrì, poeta e filosofo, gran traduttore di lirici europei, ispanista e comparatista illustre, trasferitosi a Firenze ove prese parte e animò il gruppo di poeti “ermetici”, formando scuola con Carlo Bo, aveva promesso la pubblicazione presso il Liceo ‘P. Colonna’ di Galatina del suo volume di studi vichiani. Ma in realtà, laureatosi in Filosofia con il ‘maestro’ E. P. Lamanna proprio su Vico, dava alle stampe Il pensiero estetico di G. B. Vico, come Poesia e mito nella filosofia di G. B. Vico ( in “Archivio di Storia della Filosofia italiana”, Todi, Tuderte, 1937 ); L’estetica di Vico avanti la “Scienza Nuova” ( in “Convivium”, SEI, Torino 1939, pp. 423-458 ) e la recensione al volume di Mario Fubini, Stile e umanità di Giambattista Vico ( Laterza, Bari 1946 ), in “La Gazzetta di Parma” del 26 settembre 1946: recensione di cui parlano ancora il Croce e il Nicolini nella loro fondamentale Bibliografia. Si dovrà attendere il volume La vita della parola. Studi su Ungaretti e poeti coevi, a cura di Anna Dolfi ( Bulzoni, Roma 1998, pp. 67-76 ), per trovare disponibile il saggio del Macrì, L’arte nella psicologia di C. G. Jung, da cui al presente riguardo vichiano si son prese le mosse, nella coscienza della formazione filosofica, che spiega – oltre l’erudizione poetica e letteraria – il perché Oreste Macrì abbia colto prima di tutti la ‘possibiità di’ istituire il rapporto Vico – Jung. Tale formazione filosofica gli fa esaltare il Vico per i concetti di “Universale fantastico”, “conato fantastico” e la preminenza del “mito”, dovendo al Lamanna e a Croce da una parte, allo Jung per l’altra. il paradigma della “quaternità”, fino al punto da ipotizzare le “quattro Radici nella poesia”, sulla scorta del dibattito assai vivo in quegli anni fiorentini a proposito dell’alternativa Freud – Jung. Di tutta la cerchia “ermetica”, solo Macrì – dichiara lo stesso poeta – pregiava – rispetto al Freud – Carl Gustav Jung. In effetti, veniva così strutturando un sistema a ‘quadrifoglio’ ( come ho potuto dire altre volte per Croce e il “vitale” ): “La tetrade radicale, in perenne e dialettico dinamismo fino alla sinergia egemone del significato salvifico ( 4^ Radice ) e della metamorfosi ( 3^ Radice ), che incorporano e neutralizzano la qualità del sacro ( 2^ Radice ) e la dimora vitale (1^ Radice ), nell’atto gestaltico della ‘avventura poematica’, è stata sperimentata da Macrì fin dal 1947 sul corpo semantico del Cimitero marino di Valery” ( Gino Pisanò, 1992 ). Entro lo schema tetradico, sempre vivo e accogliente, sono così ospitati la “Base vitale” ( Croce ), il “sacro” ( Rudolf Otto ), la “metamorfosi” ( prospettiva e tempo, da Bergson a Ragghianti, e da Proust all’ Assunto, con cui Macrì dialogò a proposito della religione ) e il “significato salvifico” ( Archetipo junghiano ). Ma “archetipi” possono ben dirsi, estensivamente, tutti e quattro i momenti della estetica di Macrì. Addirittura, lo stesso critico discuterà Gramsci, l’Anti-Croce, ne “Il Critone”, I/2, maggio 1956 ( poi accolto nel libro Realtà del simbolo. Poeti e critici del Novecento italiano, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 590-593 ), confermando le ragioni della propria disposizione filosofica globale; ragioni su cui mi trattengo per evidenziare il fatto che il Macrì è stato il primo, non solo a intuire le analogie ante litteram tra pensiero vichiano e pensiero junghiano, ma anche a coglierne le differenze e il risalto. Così, la lettura della quadruplice radice della poesia ( anche modulata sul ritmo del Cimitero marino di Valery ) consente la chiarificazione: “sussunta la statica e inerte psicologia junghiana”, “per essere proiettata e rigenerata alle sorgive vichiane”. Macrì non ha avuto tempo e modi di sviluppare l’ “abbozzo ermeneutico” ( direbbe Gadamer ). Ma il profilo della interpretazione è già chiaro: 1. Va bene l’Archetipo, con la sua ricezione mitica e metodologica ( es.: Significato “salvifico”, il “sacro” ); 2. Epperò, l’Archetipo – si badi bene – serba ancora nel suo seno, versandolo nella teorizzazione dei “Tipi psicologici”, un carattere “statico e inerte”; 3. Invece, il complesso di tali suggestioni interpretative si può proiettare sulle polle sorgive vichiane; e 4. Autenticamente si rigenera, beneficiando di tale retroazione. Non è lavoro da poco, quello che ha permesso di enucleare, dall’ abbozzo esegetico del Macrì, tale intenso svolgimento storico e teoretico. In fondo, il significato “statico” o “a doppia facciata” degli opposti linguistici in Freud, in contrapposizione netta a quello “dinamico” e “prospettico” degli opposti nel pensiero poetante sia della poesia italiana ( Dante, Leopardi, Montale ) che della estetica della modernità ( Vico, Croce ) e del modernismo ( Joyce, Beckett, Eliot ), lo avevo esplicitato nel saggio della “Fucina del mondo”, Sintesi del vitale: dove il momento “statico” risiedeva nella riscoperta della “regressione” in alcune patologie, via via riemergenti alla coscienza ( il caso di Alberto Cadei ). In forma non dissimile, si produce l’alternativa tra ‘psicologia statica e inerte’ junghiana, e rigenerazione spirituale della poesia e delle ‘modificazioni della mente umana’ in Vico; come dire, tra ‘materia’ e ‘forma’, filosofia ‘negativa’ e filosofia ‘positiva’.
Si deve, così, tornare alla nozione di “senso comune”, ponte lineare tra le diverse culture, in grado di giustificare le controverse accezioni del’archetipo: giustificazione storicamente ex ante; ma ermeneuticamente a posteriori. “Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero”. Questo passo lo citerà poi Hillman. Ma, per allora, il Vico così lo spiega. “Questa degnità è un gran principio, che stabilisce il senso comune del genere umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano con intendere l’unità sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono. Ond’ esce il dizionario mentale, da dar l’origine a tutte le lingue articolate diverse, col quale sta conceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie in tempo di tutte le nazioni, del qual dizionario e della qual istoria si proporranno appresso le degnità lor proprie. (..) Questo sarà uno dei perpetui lavori che si farà in questi libri: – in dimostrare che ‘l diritto natural delle genti nacque privatamente appo i popoli senza sapere nulla gli uni degli altri: e che poi, con l’occasione di guerre, ambasciarie, allianze, commerzi, si riconobbe comune a tutto il genere umano” ( Libro I. II. XIII, qui cit. dalle Opere, ed. Rossi, Milano 1959). Il concetto di “senso comune” rinvia a quello di Provvidenza, che lo governa ‘con l’occasioni di guerre ambascerie allianze e commerci’, propiziatrici di incontri successivi per il riconoscimento di “idee comuni”, quale il diritto natural delle genti ( cfr. Libro I.II. VI ).
Ora, questo concetto è confermato poco più avanti: “Il senso comune è un giudizio senz’ alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano. – Questa degnità con la seguente diffinizione ne darà una nuova arte critica sopra essi autori delle nazioni, tralle quali devono correre assai più di mille anni per provenirvi gli scrittori, sopra i quali finora si è occupata la critica” ( Libro I. II. XII, p. 329 ed. Rossi ). In questo caso, il “senso comune” vichiano è “giudizio senza riflessione”, cioè inconscio, in quanto “base vitale” per tutto un popolo, tutta una nazione e tutto il genere umano, precorrendo l’inconscio collettivo come “radice vitale” dell’archetipo junghiano, piuttosto che la categoria dello “spirito oggettivo” nella filosofia della storia di Hegel, invocata da alcuni interpreti.

Sulla medesima linea, il passo successivo, noto anche allo Hillman. “E’ necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intende la sostanza delle cose agibili nell’umana vita sociale, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possano aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne’ proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l’istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante élleno sono, per tanti diversi aspetti significate” ( Libro I. II. XII, p. 335 ed. Rossi ). Anche qui viene in evidenza il concetto di sapienza volgare, coltivata da tutte le nazioni nei proverbi e nelle massime, se pure con le diverse modificazioni storiche dei vari casi, che ricorre nel mondo delle fiabe e dei miti della letteratura mondiale, osservato attentamente circa due secoli dopo da Carl Gustav Jung. “Il concetto di archetipo è derivato dalla ripetuta osservazione che i miti e le fiabe della letteratura mondiale contengono certi motivi che ritornano sempre e dovunque. Incontriamo gli stessi motivi nelle fantasie, nei sogni, nei delirii e nelle allucinazioni di uomini d’oggi. Tali immagini e collegamenti tipici vengono denominati rappresentazioni archetipiche” ( La coscienza morale dal punto di vista psicologico, in Das Gewissen. Studien aus dem Jung-Institut, Zurigo 1958, pp. 199 sgg. ). Ma, straordinariamente ( in senso etimologico, extra ordinem ), poco dopo Jung spiega: “Non dobbiamo cedere nemmeno per un momento all’ illusione di poter una volta finalmente spiegare, e con ciò liquidare, l’archetipo. Nemmeno il miglior tentativo di interpretazione è altro che una traduzione più o meno riuscita in un altro linguaggio figurato” ( cfr. Zur Psychologie des Kind-Archetypus, in Jung – Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1951), trad. it. di A. Brelich, Torino 1972, 3^ ed., p. 121 ). E addirittura: “ Mi sembra probabile che la vera natura dell’archetipo non possa essere portata alla coscienza, cioè sia trascendente, per cui io la definisco psicoide” ( cfr. Von den Wurzeln des Bewusstseins, “Sulle radici della coscienza”, 1954, pp. 576 sgg. in Ricordi sogni riflessioni, ed. di A. Jaffé, Milano 1998, pp. 468-469 ). La storia delle definizioni dell’archetipo in Jung è ‘controversiale’, cioè in risposta a continue domande, richieste di charificazioni e obiezioni che gli venivano formulate, ed a cui egli rispondeva ‘Non dobbiamo illuderci di spiegare, e con ciò liquidare, l’archetipo’: spia linguistica che mi ha fatto sempre ricordare la critica di Karl Popper alla psicoanalisi, non possedere cioè questa dottrina carattere ‘scientifico’, non essendo ‘falsificabile’.

Sì che, alle varie obiezioni, per questo concetto e sulla definizione di questo concetto, Jung oppone: ‘Non può esser portata alla coscienza’, ‘E’ psicoide’, ‘Ogni tentativo di traduzione sarebbe equivalente a una traduzione in altro linguaggio figurato’ ( come dire, in estetica moderna, ‘sarebbe allegorizzante’ ), ‘Ogni spiegazione non valga come liquidazione dell’archetipo’ ( parando o anticipando i colpi ). Quando gli chiesero se l’archetipo potesse essere Dio, rispose di fare attenzione, perché non aveva mai sostenuto tale asserto e che l’archetipo non è Dio, ma “la semplice tendenza a credere nella deità”, adottando – nel merito – un criterio e un metodo che per brevità dirò “schellinghiano” ( la “potenza d’essere” è più importante e centrale rispetto a “essenza” ed “esistenza”, “potenza” e “atto” ). Ma prima di procedere sul terreno filosofico, non voglio trascurare la inerenza universale della fiaba e del mito studiata da Jung, ed anticipata nei paragrafi della Scienza Nuova del Vico, togliendo in esempio il caso della novella, o leggenda, di Nicola Pesce. Gli eruditi come Pitré ne hanno scoperto diciassette versioni; le attinenze col mito di Ulisse e della Sirena sono molteplici; le contaminazioni con la storia di San Nicola di Bari risultano con ogni probabilità posteriori alla fonte del trovatore provenzale Raimon Jordan; le riprese per altri sentieri del libro di Giona sepolto nel ventre della balena, di Moby Dick e del Leviatano, del Pinocchio di Collodi che finisce nel ventre di enorme pesce e di ‘Angiò uomo d’acqua’ dello scrittore toscano Lorenzo Viani, riescono affascinanti, quanto dal più al meno accostabili o remote. Comunque, vichianamente, Benedetto Croce ne fece oggetto di appassionate ricerche giovanili ( La leggenda di Niccolò Pesce, in “Giambattista Basile”, III/7, 15 luglio 1885, pp. 49-53 e III/8, 15 agosto 1885, pp. 58-59; Orione e Niccolò Pesce, “Napoli Nobilissima”, I, 1892, pp. 47-48 e V, 1896 ), fino a rifonderle in Storie e leggende napoletane del 1915. “Una delle leggende, che più mi colpirono nei miei primi anni in Napoli, fu quella di Niccolò Pesce: del fanciullo che amava starsene sempre in mare, facendo gridare sua madre, la quale un giorno, nel calor dello sdegno gli gettò la maledizione, che potesse ‘diventar pesce’; e da pesce o quasi pesce egli visse da allora, capace di trattenersi ore e giorni immerso nelle acque, come nel suo proprio elemento, senza bisogno di risalire a galla per respirare. (..) Una volta il re fu preso dal desiderio di sapere come fosse fatto il fondo del mare; e Niccolò Pesce, dopo lunga dimora, tornò a dirgli che era formato di giardini di corallo..” Finché, all’ordine di difficile esecuzione di vedere “come l’isola di Sicilia si regga sul mare”, assai riluttante, Niccolò Pesce acconsente, consapevole di andare incontro a morte sicura, la sepoltura marina, di cui Croce sapientemente riporta le varianti letterarie dell’ Ulisse dantesco, “finché il mar fu sovra noi richiuso”, di Giovanni Pontano e dell’ Orlando innamorato del Boiardo ( II, 8 ). “E a percorrere in mare lunghe distanze, rapidamente Niccolò Pesce usava l’astuzia di lasciarsi ingoiare da taluno degli enormi pesci che gli erano familiari e viaggiare nel loro corpo, finché, giunto dove bramava, con un coltellaccio che aveva sempre seco, tagliava il ventre del pesce e usciva libero nelle acque, a compiere le sue indagini”. Di qui l’aggancio stabilito dall’erudito secentesco Capaccio con la storia di Orione, gli echi della Napoli greco-romana, la spiegazione del bassorilievo all’ Arco di Porto con la statua di Niccolò Pesce con un coltello in mano. Di qui, soprattutto, la poesia storica di Croce: “Mi persi molte volte, fanciullo, con l’immaginazione nei fondi del mare che l’ardito esploratore frugava, e per un pezzo mi rimase in un cantuccio dell’anima il fascino di quella figura e di quelle imprese” ( cfr. l’edizione a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1990, pp. 298-305 ). Più tardi, la leggenda di Niccolò Pesce divenne oggetto di un poesia di Johann Schiller, Der Taucher. E a ritroso nel tempo, all’altezza del secondo secolo d. Cr., non si può non citare la parodistica e geniale “Storia vera” di Luciano di Samosata (125-190 d. Cr.), che immagina di varcare le colonne d?ercole, simbolo del limite della conoscenza, per recarsi con i cinquanta compagni sulla Luna o visitare gli abissi marini nella bocca di una balena.

Se c’è un esempio parlante di “universale fantastico” e di “archetipo” storicisticamente contemplato nella modernità, rispetto alla tormentata definizione junghiana, questo resiste proprio – ad avviso di chi scrive – nella leggenda di Nicola Pesce, o PisciCola, o Colapisce, che dir si voglia. – Sì che, quando il critico odierno dice che Croce non solo non cita Jung ma che ne fosse infastidito, sulla traccia di un consiglio esegetico di Raffaello Franchini, noi potremmo ricavare da tale contesto critico ulteriore spunto per sottintendere: “Non abbiamo bisogno di dirci junghiani !” ( Croce ), dal momento che il mondo dei miti e dell’ universale fantastico lo abbiamo coltivato nella appassionata erudizione, nella affettuosità intellettuale che Mario Sansone individuava nella “contemporaneità della storia”, e nella lezione magistrale del Vico. Campeggiano gli studi crociani coevi del mondo delle fiabe ne Lo Cunto de li cunti di Giambattista Basile ( edizioni e traduzioni, poi ricevute da Italo Calvino ).

Da parte sua, Jung, che non valorizza né conosce il “sensus communis” di Vico, in un’altra scheda autocorrettiva e confutatoria sull’ archetipo del 1954, scrive: “M’imbatto continuamente nell’ equivoco che gli archetipi siano determinati da un contenuto, siano cioè una specie di ‘rappresentazioni’ inconsce. E’ perciò necessario rilevare ancora una volta che gli archetipi non sono determinati dal contenuto, ma solo formalmente, e anche questo in modo molto condizionato. Si può dimostrare che un’immagine originaria ( Urbild ) è determinata da un contenuto solo quando è conscia e perciò riempita da materiale dell’esperienza cosciente. La sua forma invece si potrebbe forse paragonare al sistema assiale di un cristallo, che preforma in certo senso la cristallizzazione nell’acqua madre, senza possedere in se stesso un’ esistenza materiale. Quest’ultima appare soltanto nel modo con cui si aggregano gli ioni e poi le molecole. L’archetipo in sé è un elemento vuoto, formale, che non è altro che una facultas praeformandi, una possibilità di rappresentazione data a priori. Le rappresentazioni non vengono ereditate, ma solo le forme, che a tal riguardo corrispondono esattamente agli istinti, anch’essi determinati formalmente. L’esistenza degli istinti non può esser provata, così come quella degli archetipi in Sé, fino a che non si manifestino in concreto ( Von den Wurzeln des Bewusstseins, cit., 1954, pp. 95 sgg. ). In altri termini: 1. La interpretazione dell’ archetipo non vale materialiter, per il contenuto o per la rappresentazione inconscia, che si sedimenta in un contenuto; ma formaliter, come il sistema assiale di un cristallo che si “preforma”, senza possedere una esistenza materiale; 2. L’archetipo in Sé è un sistema vuoto e formale, che non è altro che una “facultas praeformandi”, una pre-formalità, o una possibilità di rappresentazioni data a priori. Nel merito, dunque, della impegnativa chiarificazione e difficile risposta, Jung si ripara all’ombra di Schelling, per la categoria della “potenza di essere” ( insita nel concetto di “preforma”, o facultas praeformandi), assisa nel mezzo tra “essenza” ed “esistenza”, “potenza” e “atto”, come è tematizzato nella fase della “filosofia positiva” ( di Filosofia della rivelazione ). Ciò che toglie ogni impaccio è la categoria della “possibilità”, della “tendenza ad assumere certi stati”, piuttosto che il ricorso ai contenuti materiali o agli stati delle rappresentazioni ( v. il mio Il vivente originario, Milano, Libertates, 2013, con prefazione di Franco Bosio ). Jung cita Schelling, in vece di Vico, in Psicologia e religione,( p. 237 ), a proposito della “messa” e suo simbolismo; quando associa il “timore sacro” degli dèi nei primitivi a quello nei popoli cristiani o ‘civilizzati’.
Al contrario, il pensiero di Vico si mantiene coerente e lineare anche nelle altre allegazioni sul senso comune, quali la lezione giovanile De nostri temporis studiorum ratione del 1709: “Come la scienza nasce dal vero e l’errore dal falso, così il senso comune dal verisimile”. In originale: “Ut autem scientia a veris oritur, error a falsis, ita a verisimilibus gignitur sensus communis” ( ed. a cura di Paolo Rossi, Opere, cit., pp. 178-181 ). Dove il senso comune è messo in relazione con l’esercizio della prudenza, e distinto dalle pretese matematizzanti della scienza. Infatti: “In base a quanto abbiamo detto fin qui non operano rettamente coloro che trasferiscono nell’esercizio della prudenza il metodo di giudizio che è adoperato nella scienza. Costoro infatti considerano le cose con razionalità rettilinea, mentre gli uomini – in gran parte stolti – sono guidati dalla passione o dal caso, non dalla riflessione. Costoro considerano le cose quali dovrebbero esere, mentre le cose, nella maggioranza dei casi, accadono inconsideratamente. Non avendo mai coltivato il senso comune, né mai seguito le cose verisimili, contenti come sono dell’unico vero, essi non riflettono mai su quale sia il comune sentimento degli uomini intorno a quell’unico vero e sulla considerazione che essi possono avere delle cose che appaiono vere ai filosofi” ( traduzione Rossi, cit., pp. 192-194 ). Il ‘senso comune’ nasce dal verisimile, dal comune sentimento degli uomini e dalla passione o dal caso, non dalle asserzioni dell’unico vero e dalla razionalità rettilinea del procedimento scientifico.
Si tratta di una chiarificazione interna alla prima fase della filosofia e pedagogia vichiana, precedente l’acquisto esplicito della dottrina della Provvidenza, sempre in linea con l’esercizio delle “guise della prudenza” e la ricerca del “diritto naturale delle genti”. Non si ritrova, nel Vico, la netta “controversialità” che nasce intorno alla definizione dell’ “archetipo” in Jung, e che corrisponde alla negazione delle possibili obiezioni e reali messe in discussione. Beninteso, anche Vico fu indotto a rispondere a polemiche e critiche dei propri detrattori ( alcuni dei quali ricorsero anche all’insulto, chiamandolo “tisicuzzo” ); ma mai con la pretesa di recidere a priori la “falsificabilità” delle proprie dottrine, arricchite di continuo con svolgimenti interni e diramazioni o approfondimenti circa la “storia ideale eterna”, su cui procede il corso delle nazioni. Altra questione è poi quella che tocca, o toccherebbe, la sussistenza di un residuo “metafisico”, alla base di entrambe le dottrine, il concetto di “inconscio collettivo” per fondare l’archetipo junghiano, o quello di Provvidenza divina, che interviene a giustificare il “diritto naturale delle genti”. Ma codesta è questione più generale e comprensiva, che attiene a tutte le vicende speculative della modernità, ove il concetto di coscienza ‘storica’ o ‘ermeneutica’ ricomprende o risolve nel suo seno il problema della intelligenza storica e del giudizio ( Cassirer, Dilthey, Windelband, Croce, Gadamer ). Qui, e ora, ho inteso esaminare bene non solo le analogie e possibilità fondative del confronto tra “Archetipo” junghiano e “senso comune” vichiano; ma specialmente le differenze epistemologiche nella discussione delle due dottrine, correggendo il virtuale topos in lezione di metodo sul mondo insonne e inesausto delle “forme”.

“E se le cose stanno così, perché, perché” – domandava l’importante studioso statunitense James Hillman -, “io chiedo a voi, miei colleghi italiani, a voi che avete il Rinascimento ( su cui tutta l’Europa ha vissuto fino ai nostri giorni ), nel sangue della vostra anima, vi rivolgete a noi del Nord in cerca della psicologia; vi rivolgete al marxismo, all’esistenzialismo, ad Adorno e Marcuse e Freud e persino a Jung ( per non parlare di Mao e dei guru indiani ), – a tutti questi sostituti secondari – mentre la più straordinaria delle psicologie è sepolta nel vostro suolo ?” ( James Hillman, 1973, nell’amplificazione rettorica dell’occasione e traduzione di Priscilla Artom ).

Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria – Andria

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