La forza dell’Antico Testamento: Sorprendenti, Vangelo di Luca e Levitico, di Giuseppe Brescia

Nel Vangelo di Luca, il più dotto degli Evangelisti, al capo 16, 19-31, si riferisce la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, coperto di piaghe, che soltanto i cani vengono a leccare alla sua porta. E’ notevole che, alla sua morte, il povero Lazzaro venga portato dagli angeli “accanto ad Abramo”. Dove Abramo sta, evidentemente, per il volto e il nome di Dio. Il ricco epulone, invece, finisce negli inferi tra i tormenti, donde riesce a vedere in alto e da lontano Abramo, con accanto Lazzaro. Supplica, allora, il padre Abramo di avere pietà e mandargli Lazzaro a bagnargli almeno la lingua per conforto. Ma Abramo rifiuta, opponendo il “grande abisso” sussistente “tra noi e voi”, e la differente condotta di vita terrena. Il ricco epulone, tra le fiamme infernali, lo prega ancora di mandare almeno Lazzaro dai suoi cinque fratelli, per ammonimento spirituale a non adottare mai più il suo proprio stile di vita. Ma Abramo stesso risponde:”Hanno Mosè e i profeti: che ascoltino loro”. Il ricco epulone insiste con una argomentazione più ingegnosa e sottile: “No, padre Abramo; ma se dal mondo dei morti qualcuno andrà da loro, certo si convertiranno”. Niente da fare per Abramo, che confuta, appellandosi ancora strettamente alla tradizione, l’ultima motivazione rettorica: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi nemmeno se uno risorgesse dal mondo dei morti”. Ora, premesso che Luca è l’unico dei quattro evangelisti a serbare e trasmettere questo racconto, sottolineo della parabola la linea logica dimostrativa. Non soltanto Lazzaro non può scendere agli inferi a conforto del ricco, per l’abissale distanza tra i due mondi ( effetto della altrettanto abissale diversità del tenore e della qualità di vita ); ma nemmeno l’argomento etico ( ammonimento pedagogico e spirituale ai fratelli del ricco ) né l’evento assolutamente eccezionale ( la visita dei morti per favorirne la conversione ), possono più delle Sacre Scritture. La parola di Mosè e dei Profeti è sovrana. Onde si ricava una ulteriore conseguenza ermeneutica di non poco momento e che va raffrontata con ulteriori e successive deduzioni della studiosa ebraica Elena Lowenthal. Il Nuovo Testamento è sì “adempimento della prefigurazione” veterotestamentaria, adempimento di cui ha parlatto con dottrina Erich Auerbach ( Sacrae Scripturae sermo humilis e “Figura”, negli importanti Studi su Dante, su cui il mio Il silenzio di Auerbach su Pascal, in Sant’Agostino e l’ermeneutica del tempo. Analisi e trasposizioni, SPES, Milazzo 1988 ). Ma tutto ciò non toglie il valore di verità, di fonte assolutamente prima, e di “fonte” non solo di sapienza ma di vita, che mantiene la lezione dei Profeti. Altra conseguenza ermeneutica, di più pratica “fatticità” ( direbbe il Gadamer, teorico della “interpretazione” ), è il fatto che, traducendo in termini laici ( non laicistici ) il profondo dettato di Luca, è come se si intenda con ciò esaltare “Veritatis Splendor” ( direbbe Karol Woytila ), più in alto del sempre raggiungibile “accordo interpersonale”, il “Noi ci mettiamo d’accordo” in una interpretazione dei testi letterari o filosofici, o – poniamo – nel salire sui tetti dei palazzi e nello scendere in piazza, nell’occupare le scuole e andare ai cortei, nel distruggere le scuole e nel versare il latte, magari nel camaleontesismo e nel trasformismo parlamentare, e via. No: conta di più di questa varia esemplificazione fenomenologica del “mettersi d’accordo” , la via maestra delle fonti scritturistiche, della ermeneutica e della semiosi, illimitata certo ma anche ai testi classici ancorata: in questo caso esemplare, la “Forza dell’Antico Testamento”, cui ancora il Nuovo si ispira ( v. il contributo di Roger Scruton sul “Foglio” del 24 settembre 2013 ). Ancora più in generale, il Vangelo di Luca 16 può legittimamente esser letto come un parlante invito alla lettura dei testi ( Omero e la Bibbia, Agostino e Dante, Pico e Vico, Kant e Schelling, Croce e Florenskj, in via d’eminente esempio ).

Strada su cui si pone, all’interno della “complessità” ermeneutica, Elena Lowenthal nel suo libro Dieci ( Einaudi, Torino 2019 ), intensa rilettura dei dieci comandamenti, in cui la studiosa pone in luce non solo la serie dei comandi imperativi o della legge, ma anche il valore delle pause e dei silenzi. “Eccomi”, “Hinnemi”, dice il Patriarca. Ma quell’ “Eccomi” non è una parola. “E’ ciò che ferma ogni parola, è la parola che si fa muta nell’ascolto”. Ma la Lowenthal va ancora oltre, come da noi dimostrato testé nel “Sorprendente Luca”, corroborando la forza della tradizione e del Vecchio Testamento; e pregia l’anticipazione dei più radicali precetti del cristianesimo in passi centrali dei libri del Levitico o del Deuteronomio: quali son quelli attestanti “Ama il prossimo tuo come te stesso”. “Non vendicarti, non portare rancore ai figli del tuo popolo, Ama il prossimo tuo come te stesso, Io sono il Signore” ( Levitico 19, 18 ). E ancora: “Come un cittadino di voi sarà per voi lo straniero, lo straniero con voi. Amalo come te stesso, perché già stranieri siete voi stati in terra d’ Egitto. Il sono il Signore Dio vostro” ( Levitico, 19, 34 ).“Questa sì che è una sfida”. Il motto di Matteo 22, 37-40 ( in risposta a un dottore della Legge ), di Marco 12, 29-31 ( “Ascolta Israele !” ) e Luca 10, 25-28 ( con la parabola del Buon Samaritano ), considerato spesso come lo spartiacque tra ebraismo e cristianesimo, riaffiora dalla sapienza dei secoli e dalle anticipazioni veterotestamentarie. Sembra legittimo cogliere, nelle parole del Levitico, l’alternativa tra il “noi”, il comportamento verso i figli o verso lo straniero, e il comando divino; ovvero, tra l’alterità e la prossimità ( qualunque possa esserne l’attualizzazione nei tempi di migrazioni “epocali” e “globali”, che attraversiamo ).
Pure, si può andare ancora oltre, dipanando i fili dela infinita interpretazione, sul piano filosofico: e rintracciare nel precetto sovrano e comune alle Scritture la insopprimibile presenza dell’ Utile e del Vitale, nelle stesse Sacre Scritture. Il “come te stesso” è, in questo caso, l’economico, il vitale, il salvifico, l’egoità ( non l’ “egoismo”), in quanto momento precedente verso l’etico, l’universale, il rispetto dell’alterità e la solidarietà ( non il “solidarismo” ). E’ il prendersi cura di se stessi, il “coltivarsi”, come diceva Arturo Carlo Jemolo, contro l’autodistruzione e la fuga nei paradisi artificiali, con lo stupendo elzeviro della “Stampa” del 7 ottobre 1975, “L’amare se stessi”, da me ripensato in Tempo e Libertà, del 1984 ( Lacaita, Manduria, pp. 328-331 ), coonestando Erich Fromm e Carlo Antoni, la tanatologia con la dialettica delle forme spirituali in Croce. Senza la volizione dell’individuale, non potrebbe sorgere nemmeno il secondo grado dello spirito pratico, la volizione dell’universale. Ed è arricchimento ancor questo, nella stagione della “complessità”, sul piano epistemologico, la categoria centrale del pensiero contemporaneo e futuro. Sul piano etico, giova ripigliare in considerazione la lezione del su citato Jemolo: “Guai se si confonde il precetto evangelico dell’ amare se stessi con il compiacersi, soddisfare tutti i propri desideri, rifiutare ogni compito ingrato, ogni lavoro che non piaccia. Se si fa questa grossolana confusione di termini e d’idee, tra amarsi e soddisfarsi, giungeremno a dire che ama se stesso non solo il suicida, ma quegli che le cronache battezzano il folle, che rientrando in casa uccide moglie e figli, e poi si spara; la vita gli pesava, ed amando quella donna e quei bambini non voleva dovessero soffrire per la sua scomparsa; perciò li ha uccisi e poi si è ucciso. L’amore anche per sé, come l’amore verso gli altri, non è il compiacimento, né il diletto, né il rifiuto del dolore; è qualcosa di più complesso, più arduo a praticare. E’ il coltivarsi, ed anzitutto, presupposto di ogni cosa, il conservarsi. Non si ama chi trascura la propria salute, il pigro, chi non usa le sue doti; l’amore è forma attiva, non è l’inerzia; non ama una donna chi si compiace delle sue doti fisiche, ma nulla fa per renderla felice. Non ama la sua arte, la sua opera, il pittore o lo scultore che, abbozzata la tela o il marmo, dipinti o scolpiti i tratti essenziali, non cerca di perfezionarla; lo scrittore che non è disposto a lacerare il suo manoscritto ed a ricominciare da capo, se non è soddisfatto di quanto ha scritto, se non ha raggiunto la perfezione cui poteva portarlo. E così non si ama – e siamo già molto al di sopra dei casi di autodistruzione, che implicano non confessato odio di se stessi – quegli che si contenta del minimo che può ricavare dalle sue doti: accetta di essere un mediocre figlio, un mediocre marito, un mediocre padre, un operaio che rende il minimo sopportabile, un medico che non ha l’angoscia della giusta diagnosi e della giusta terapia, un avvocato che stende alla meglio le sue difese, senza il pùngolo di studiare documentazione e giurisprudenza, senza che mai, nelle ore di riposo, al risveglio, gli baleni un nuovo argomento; un insegnante cui poco importa che gli allievi assorbano qualcosa del suo insegnamento, pago soltanto che non gli diano fastidi; peggio, il prete mediocre, che non ha l’assillo di ciuò che potrebbe compiere anzitutto sui credenti, ma poi nel mondo, con l’esempio. Se si confonde l’amore con il piacere, il compiacimento, il soddisfacimento momentaneo, evidentemente il precetto non vale più. E se qualcosa mi spaventa guardandomi intorno nel mondo di oggi, soprattutto nei giovani, è come stia diventando raro, quasi come l’amore per gli altri, l’amore per se stessi.

Il ‘vivere alla giornata’, il ‘sarà quel che sarà’, non è l’affidarsi alla Provvidenza, ma è proprio il non amare se stessi;perché non v’è amore che non voglia essere c h i a r o v e g g e n t e, guardare quanto possibile nel futuro. Proprio nell’amore deve avvertirsi l’ansito della creazione“. Lezione non solo attualissima sul piano effettuale, ma veritiera su quello ideale, dal momento che evidenzia non solo il dipanarsi e dilatarsi interno dell’utile verso l’etico, serbando sempre la distinzione tra l’amare se stessi e l’amore altruistico; ma anche perché collega l’amare se stessi al perfezionamento di cui già scrissero il Constant e il Croce, il coltivarsi con l’ansito della creazione. Il “coltivarsi” creativo ed espansivo, memoriale e perennemente ricostruttivo, rappresenta anche la risposta alla ricerca del “sacro” perduto, scrutata nel coevo lavoro sull’Antico Testamento di Roberto Calasso, Il libro di tutti i libri ( Adelphi, Milano 2019 ), là dove si paventano i rischi di una nuova e forse più complessa “Torre di Babele”. “Un vento sovrannaturale cominciò a soffiare, quando la Torre era già così alta che non se ne vedeva la coma. Era un vento che non somigliava a nessun altro e voleva soltanto distruggere. Quando i mattoni, che i costruttori avevano siglato con i loro nomi, uno per uno, cominciarono a precipitare, gli uomini si accorsero che non si capivano più fra loro”. Così il Calasso. Ma il “vento che soffia più in alto”, il “vento di foresta” non “sovrannaturale”, ricordato da Cesare Angelini (1886-1976 ) nei suoi appunti autobiografici e narrativi, può essere anche quello del sempre più alto e inarreso dialogo religioso e filosofico tra Benedetto Croce e il russo Venceslao Ivanovic Ivanov, tessuto al Collegio Borromeo di Pavia nel 1931, come il respiro dei “due polmoni” Oriente e Occiudente (v. Gli uomini della Voce, Scheiwiller, Milano 1986, pp.52-66; e il mio Radici dell’Occidente, Libertates, Milano 2019, pp.145-156 ). 

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