Appartenne alla generazione di Angelo e Riccardo Zagaria, Antonio Del Mastro, poeta, romanziere e fine critico letterario andriese, docente di Italiano nel Liceo Ginnasio “Carlo Troya”, ai cui alunni rivolse la rievocazione di Ugo Foscolo. Discorso letto ai giovani del Regio Ginnasio e Liceo Comunale di Andria nella ricorrenza del Primo Centenario della morte del Poeta ( cioè nel 1927, ma edito da Valdemaro Vecchi, in Trani nel 1930, con il bellissimo Logo in copertina “Esprimere per Imprimere” ). La sua produzione si può distinguere in: un periodo “dannunziano”, intriso delle esperienze liriche del tempo e ispirato al senso dell’eroico ed al sensualismo ( es.: Parole, Guzzetti, Vasto 1914; Un poeta borghese , Rossignoli, Andria 1915; Le eroiche, precedute da ‘La patria, la poesia di guerra e il poeta nazionale D’Annunzio’, Studio editoriale “Eco della Cultura”, Napoli 1916; e La divinità della carne. Romanzo, Casa Editrice “Quartana e Schreiber”, Torino 1921 ); la collaborazione al settimanale letterario napoletano “Vela Latina”, vicino sia al futurismo e al decadentismo che al crocianesimo ( 1913-1918 ), con la conoscenza ed amicizia del grande critico Francesco Flora (1891-1962), il quale dettò anche una Presentazione al libro di Del Mastro I miei amici vegetali. Rcconti e fantasie ( Ceschina, Milano 1939: Tip. Zerboni, pp. 9-18 di 246 ); un periodo “crociano”, dovuto alla conoscenza dell’apertura lirica e cosmica della grande arte, conoscenza trasmessa dallo stesso Flora, e affidata dal Croce al saggio “Aesthetica in nuce” del 1926, che va da L’eticità dell’arte ( Rossignoli, Andria 1926 ) ai lavori su Foscolo e Vittorio Betteloni e la sua poesia ( Vecchi, Trani 1928 ); e dallo studio sullo scultore molfettese Cifariello, Vecchi, Trani 1928 e 1929; fino alle sintesi critiche e narrative degli anni Trenta e Quaranta ( Un uomo nell’Oceano. Romanzo, Ed. Ceschina, Milano 1932; Civiltà e Poesia, Macrì, Bari 1941; Umanità di Machiavelli, Lischi e f., Pisa 1942 e Rapine nel tempo, Berben, Modena-Milano 1946 ). Nel contempo, perdurano le importanti tracce della attività poetica di Del Mastro ( Poesie in grigio, in rosso e in viola, ‘Prometeo’, Andria 1926 e Liriche del nostro tempo, SEI, Torino, estratto da “Convivium”, n. 5, 1938, pp. 271-279 e 1941, pp. 486-489). Il Flora scrive di esser debitore verso Antonio Del Mastro per alcuni spunti estetici che lo hanno indotto a lunghe meditazioni, anche prima della “Presentazione” al suo libro I miei amici vegetali, salendo a una caratterizzazione più vasta del rapporto tra realtà e fantasia, che s’ istituisce nei racconti di Del Mastro ( racconti centrati su Napoleone, Don Abbondio, l’intervento divino nell’umano, i personaggi delle liriche di Dino Campana, e via ). Poi aggiunge: “Io dicevo dunque che il pensiero e l’arte d’oggi tendono, più di quanto non abbiano fatto in passato, a ritrovare in ogni oggetto il suo mito, la sua fantasia, la sua più cara verità: scoprirvi, come effettivi, quei caratteri che il volgo chiama fantastici. Si attua una contemperanza e commistione di tempi, e vale a dire di diversi stadi spirituali, l’uno reale e l’altro fantastico, in modo più intenso di quel che sempre abbia fatto l’arte. (..) Più tardi il Del Mastro ha scritto il romanzo Un uomo nell’ Oceano, che sorge da un’ispirazione quasi opposta a quella dei racconti, poiché i tratti fantastici e metaforici della narrazione nascono da un’avventura comune, di quelle che usa dir realistiche. Ma lo spirito dell’autore è, per interna sincerità e coerenza, il medesimo: attento ad approfondire nell’uomo quel che è più umano; come qui, nello specchio della favola cerca il volto dell’uomo puro. Deluso dei moti avventurosi di idee e di formule che il fertile e saturnio Novecento ha generati e inghiottiti, sembra a me che in questi ultimi lavori il Del Mastro abbia trovato la sua via e la sua verità. (..) Il Del Mastro è scrittore limpido e onesto, abbondante senza enfasi, come sono i mediterranei più solatii, colorito senza vani sperperi, audace senza arbitrio, infine pensoso senza faticanti astrusità verbali”. A me, ora, piace sottolineare la poesia del paesaggio in Puglia, che colora spesso la tavolozza di Del Mastro: “Si direbbe che il mondo, disfattasi la sua brutale materialità, si sia mutato in un gioco quasi magico, lentissimo e pur sensibile, di volumi e di spazi trasparenti, che circolano si sfiorano si accarezzano si sovrappongono lievemente l’uno all’altro, generando infinite gradazioni di luci dorate e turchine” ( alla p. 242 dei Miei amici vegetali ). Dove non manca un’eco proustiana, nella leggerezza della sovrapposizione di piani e linee dell’orizzonte ( mie le sottolineature nel testo ).
Tutte le opere di Del Mastro sono custodite nelle più importanti biblioteche italiane. Oltre che nella Nazionale Centrale di Firenze, per obbligo di stampa, molte sono nella Biblioteca di Casa Carducci a Bologna, nella Biblioteca della Università di Bologna, nella Biblioteca Comunale “Giovanni Bovio” di Trani, nella Biblioteca Comunale di Molfetta, di Padova, di Imola, nella Biblioteca dell’ Istituto per la Storia del Risorgimento, alla ‘Sagarriga Visconti Volpi’ di Bari, e via. Solo la raccolta del prezioso periodico “Vela Latina” è serbata esclusivamente nella Biblioteca Nazionale di Napoli ( disponibile in rete ), consentendoci, ora, persino delle integrazioni e aggiunte alla bibliografia dell’ immensa opera di Benedetto Croce. Talché alcune opere di Antonio Del Mastro sono serbate anche nella Biblioteca della Fondazione Croce, a Palazzo Filomarino, in Napoli: come il saggio ‘L’eticità dell’arte’ e l’altro su ‘Vittorio Betteloni’, opere di soggetto entrambe altamente ‘crociano’, per il fatto che l’estetica del filosofo aveva spiegato, nel 1926, l’intrinseca “moralità” dell’arte, non come ‘moralismo’ posticcio a detrimento della sua autonomia, sì – bene – come approfondimento interno alla estetica dell’intuizione “pura” ( 1902 ), della intuizione “lirica” ( con la memoria letta ad Heidelberg, L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, 1908 ) e poi della ‘intuizione “cosmica” ( con Il carattere di totalità dell’espressione artistica: 1917: non a caso ‘ponte’ per l’unità culturale europea, negli anni della grande guerra ). Pure, questo saggio di Del Mastro è assente nella Bibliografia crociana di Edmondo Cione ( Bocca, Torino 1956, alla Parte comprensiva della Bibliografia degli scritti su Benedetto Croce ). Il riscontro offre occasione per un altra trouvaille, questa volta di uno scritto di Benedetto Croce, Nel Regno delle maschere, pubblicato per la prima volta nella rivista “Vela Latina”, Anno 2, n. 18 ( 29 aprile 1914, alla pagina 1 ), e contenente la Introduzione al volume Nel Regno delle maschere. Dalla commedia dell’arte a Carlo Goldoni di Emilio Del Cerro. Questo saggio uscì in Napoli per la Tipografia Perrella nel 1914, comprendendo l’ Introduzione di Croce alle pp. V-VII: Introduzione poi dallo stesso ristampata nelle Conversazioni critiche, vol. II, pp. 235-237, e così soltanto nota alla Bibliografia crociana del citato Edmondo Cione, alle pp. 136 e 291 ( che riferisce anche lo pseudonimo di Emilio Del Cerro, “Nicola NICEFORO” ) ed alla bibliografia successiva di Silvano Borsari, L’opera di Benedetto Croce ( Nella Sede dell’Istituto, Napoli 1964, n. 997: il quale Borsari riduce lo pseudonimo di DEl Cerro a “NICEFORO”, ma senza conoscere né citare la primitiva e rarissima edizione dello scritto crociano nella benemerita testata “Vela Latina” ).
Sia il filosofo napoletano che il letterato andriese si occuparono, quasi negli stessi anni, dello scultore Filippo Cifariello ( Molfetta 3 luglio 1864 – Napoli 5 aprile 1936 ), di fama nazionale e ricca bibliografia, vincitore di concorsi pubblici, tra cui quello per un monumento a Dante Gabriele Rossetti, onorato appunto dal Croce alla p. 15 del volume Esposizioni Cifariello, Villa Cifariello – Vomero ( Solimene, 8-10 ) e Galleria Corona – Napoli ( Via dei Mille ). Cinquant’anni di lavoro e di lotte, giudizi di critici italiani e stranieri dal 1892 al 1924 ( Napoli, Officina Tipogrfica Giovanni Barca 1924 ). “Benedetto Croce a F. Cifariello sul Monumento a Gabriele Rossetti”:
“Rare volte, come in questo vostro bozzetto del monumento a Gabriele Rossetti,
un artista ha con tanta cura e larghezza, e con tanto acume, radunato e studiato gli
elementi che debbono concorrere all’ideazione di un monumento perché sia davvero
un ‘monumento’ cioè un’opera d’arte storica, nella quale si esprima, insieme con
l’immagine verace del passato, il pensiero di noi,uomini moderni,che lo celebriamo.
Vi auguro di riuscire nella grande impresa di tradurre in purissima forma plastica
il ricco mondo ideale che avete così bene concepito.
Napoli, 3 giugno 1913 Benedetto Croce”.
Sul Cifariello, già nel 1894, Orazio Spagnoletti aveva sancito: “Senza contorsioni e senza inutili accessorii, l’autore è disceso pazientemente a plasmare un gruppo di scoltura antica con i ferri del tempo nostro” ( in Post prandium, Vecchi, Trani 1894, pp. 63-71 ); seguito dai giudizi di Raffaele Cotugno e Giovanni Pàstina ( “La Puglia”, 1894 ), Vittorio Pica (1899, 1900 e 1904), Luigi Conforti ( “Rassegna Pugliese” del 1886 ), Ugo Fleres ( “L’Arte”, 1899 ), Madia Titta ( Il processo Cifariello, Roma 1928 ), Il caso Cifariello e Croce (“Don Chisciotte”, Roma, 11 novembre 1920), fino agli scritti di Antonio Del Mastro ( 1928 e 1929 ), Giuseppe Ceci ( Bibliografia per la storia delle arti figurative nell’Italia meridionale, Napoli 1937, vol. II ) e G. Marangoni ( Cifariello, Milano 1936 ), saggi dopo dei quali non mancava di interessarsi al Cifariello la critica d’arte di Giulio Carlo Argan e Carlo L. Ragghianti. Ora, il Del Mastro ricapitola molta parte dell’opera plastica e figurativa del Cifariello, non senza riferimenti al “caso” Cifariello, che fu sottoposto a un processo nel 1908 per aver ucciso la consorte Maria De Browne, per gelosia, nel 1905 ( processo seguìto dai giornali nazionali, con enorme scalpore e alterno sentire ). Ma la sua opera rimane, soprattutto, per le esposizioni a Roma e Napoli, Parigi e Londra, Monaco e Vienna, fino a vincere l’incarico di direzione per una fabbrica di porcellane in Possàvia, in Bassa Baviera, ove eseguì ( lui venuto fuori dalla scuola napoletana di Morelli e Palizzi ) anche il busto del pittore Arnold Bocklin . Noteremo nel dettato crociano ( affatto sconosciuto alle bibliografie sopra citate del Cione e del Borsari ) l’accezione classica del termine “Monumento”, dal latino monimentum, “cioè un’opera d’arte storica, nella quale si esprima, insieme con l’immagine verace del passato, il pensiero di noi, uomini moderni, che lo celebriamo”. Arte e Storia si affratellano, ancora, in Croce, dopo le memorie pontaniane giovanili e mature, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’ arte; Storia cronaca e false storie; fino a Teoria e storia della storiografia ( cfr. F. Fellmann, La dissoluzione della filosofia della storia attraverso l’arte e R. Franchini, La teoria del giudizio storico e la logica di Croce, in Benedetto Croce trent’anni dopo, a cura di Antonino Bruno, Bari 1983, pp. 99-132 ; e il mio recupero , nella Sezione Seconda. X., Per Filippo Cifariello (1913), in Croce inedito. 1881-1952, SEN, Napoli 1984, pp. 146-149 ).
Codesta fase, che ho designato ‘crociana’, della riflessione poetica e letteraria di Antonio Del Mastro trova il proprio punto di Svolta nella critica di Francesco Flora alla poetica del futurismo, critica dichiarata sulle pagine del giornale settimanale “Vela Latina”, come la “morte del Futurismo”: donde il riferimento in premessa al volume del 1939, I miei amici vegetali, di Del Mastro. “ Deluso dei moti avventurosi di idee e di formule che il fertile e saturnio Novecento ha generati e inghiottiti, sembra a me che in questi ultimi lavori il Del Mastro abbia trovato la sua via e la sua verità”.
E, in effetti, al settimanale “Vela Latina”, dall’ Anno I/1 ( 11 dicembre 1913 ) all’ Anno 6/19 ( 30 Maggio 1918 ), collaborarono, fra i tanti, Gian Piero Lucini e Ferdinando Russo, Giovanni Rabizzani e Paolo Buzzi, Benedetto Croce e Francesco Flora, lo stesso amico e dotto andriese Riccardo Zagaria, Vittorio Imbriani e la donna ( “Vela Latina”, A. 2/30-31, 23 luglio-30 luglio 1914, pp. 1-2 ); con Antonio Del Mastro, dei cui ‘pezzi’ qui fornisco l’elenco completo: Un folklorista pugliese: Riccardo Zagaria, “Vela Latina”, Anno 2, n. 20 ( 14 maggio 1914, p. 3 );
Voci d’Abruzzo di Ermindo Campana, “Vela Latina”, Anno 3, n. 36 ( 9-15 settembre 1915, p. 3 ); Un epigrafista e patriota pugliese, “Vela Latina”, Anno 3, n. 41 ( n14-20 ottobre 1915, p. 3 );
A braccetto con le Muse: sguardo sintetico su l’attuale nostra poesia, “Vela Latina”, Anno 3, n. 48 ( 2-8 dicembre 1915, p. 3 ); Il teatro sintetico futurista ( La pagina futurista), “Vela Latina”, Anno 4, n. 1 ( gennaio 1916, pp. 2-3 ); e finalmente Bambinerie: parole in libertà ( La pagina futurista ), “Vela Latina”, Anno 4, n. 5 ( 12 febbraio1916, p. 2 ).
Non soddisfaceva, tuttavia, alla tempra etica ed alla vena letteraria di Antonio Del Mastro, la produzione futuristica, con la relativa infatuazione per formole e imperativi alla moda. Per ciò, si rivolge sempre più alla voce dei testimoni di verità e libertà: Foscolo, Betteloni, Croce, Unamuno e il “sentimento tragico della vita” ( ivi ricomprendendo gli altri “nostri maggiori” ). La grande poesia, il pensiero poetante, dice Del Mastro ( sugli esempi di Omero, Ariosto, Manzoni, Leopardi, Nietzsche, Dostoevskij e Nikolai Gogol ), “sono sgorgati tutti da uno stato di tragica serietà delle anime creatrici” ( v. il suo Vittorio Betteloni, cit., pp. 62-63 ). Non a caso, tra i moderni, sceglie il poeta Betteloni, già trattato da Croce nella Letteratura della nuova Italia ( Bari 1921, al vol. I ): autore “minore” ma “importante”, per la serietà etica della personalità. Allora, sulle tracce non solo di Giosuè Carducci e Guido Mazzoni, del Croce e di Francesco Torraca che gli indirizza una lettera elogiativa in premessa, Del Mastro riscopre il valore più alto dell’ “eroismo”, non più quello ‘dannunziano’ dell’infatuazione giovanile, ma l’altro storicamente robusto del Carlyle. E, sempre nel volume su Betteloni ( p. 64 ), ricorda: “L’uomo per esser uomo, per aver la coscienza, è già, rispetto all’asino o al gambero, un animale malato. La coscienza è una malattia” ( ripreso da Miguel De Unamuno, Del sentimento tragico della vita, trad. Beccari, Libreria Editrice, Milano 1914, p. 19 ).
Del Carlyle, grande storico e politico inglese, e del suo volume dedicato a Gli Eroi ( trad. it., Barbera, Firenze 1918, p. 4 ), Del Mastro convintamente ripete: “Di un Uomo o di una nazione domandiamo prima di tutto quale sia la sua religione”. E il Carlyle intende per religione ( ben spiega Del Mastro ): “la cosa che l’uomo ha praticamente a cuore e ritiene certa riguardo alle sue vitali relazioni con questo misterioso universo”. In una parola, la “religione della Libertà”, o la “Vitalità”, che le offre la Ursprung, o la fondazione, come altrimenti detta e interpretata.
La tempra etica di Antonio Del Mastro diventa sfolgorante e preminente nella già citata lezione su Foscolo tenuta al Regio Ginnasio di Andria, per conforto dei giovani. Qui Del Mastro va oltre rispetto all”erudizione e alla rivisitazione biografica, per attingere parole veritiere sulla patria, la testimonianza dei valori, la lotta all’ipocrisia e al servilismo talora imperanti, e all’epoca ( 1927 ! ) evidenti. Con queste riproposizioni filologiche ed ermeneutiche, è opportuno concludere la mia restituzione storica. Stiamo parlando di percorsi risalenti a un secolo addietro, all’incirca; la loro attualità è, però, sorprendente. Dopo aver trattato della personalità magnanima foscoliana, della influenza ellenica, della bellezza dei sonetti come “A Zacinto” e del carme “Dei Sepolcri”, della bellissima sua genitrice Diamantina Spathis, “vedova e sprovvista di mezzi” e venuta, perciò, a vivere a Venezia, Del Mastro descrive la “semplicità e sicurezza” ( nel “libero rispetto” ), con cui Foscolo inviava a Vittorio Alfieri una propria tragedia del 1797; la delusione per il trattato di Campoformio; la nascita dell’ Ortis e la devozione verso Giuseppe Parini, con il quale ebbe un ardente colloquio; la decisione di combattere contro gli Austriaci, in Emilia nella Trebbia e a Novi; la conoscenza, in Francia, di una giovanetta inglese, da cui ebbe una bambina “che fu poi l’angelo consolatore dei suoi ultimi anni”; “natura vulcanica e sensibilissima all’incanto della bellezza muliebre” ( dalla Isabella Teotochi-Albrizzi alla marchesa Luigia Pallavicini ‘fra le Dive liguri regina e diva’, dall’ avvenentissima Teresa Pickler, la moglie di Vincenzo Monti, alla graziosa e perversa contessa Antonietta Fagnani-Arese, e Isabella Roncioni, e Maddalena Bignami, da ‘i grandi occhi fatali”, e Marzia Martinengo e Franca Giovio e tante altre ). “Lo spirto delle Vergini Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga..”- “Io me lo figuro, emaciato e soffuso il volto di languente pallidezza, cercare nello sguardo e nel cuore di una donna quell’ideale di eroica e superiore armonia che la vita civile allora non gli presentava, quella limpida immagine di bellezza, di cui fu un instancabile e martoriato adoratore. (..) Ma la pace e l’armonia gli vennero da ben altre fonti, da polle sorgive di cristallina purezza: dall’altrui poesia e dalla sua. E nelle immortali opere degli antichi nostri poeti cercò e fissò il centro di un suo altissimo sistema morale” ( p. 18 del volumetto “Ugo Foscolo” ). Ricordata la prolusione alla Università di Pavia del 22 gennaio 1809, che “suscitò un delirio irrefrenabile”, e il giudizio desanctisiano in proposito ( “Era la prima volta che si udiva dalla cattedra un concetto così alto della letteratura e di uomo che predicava con l’ esempio”), Antonio Del Mastro si sofferma sul “doloroso e sublime amor di patria nel carme “Dei Sepolcri”: “A egregie cose il forte animo accendono / l’urne dei forti, o Pindemonte”. -“Ed io, quando penso che Garibaldi e Mazzini frementi sentirono riardere più intenso il loro eroismo nel leggere i versi divini dei ‘Seplocri’, non esito ad aggiungere che questo carme, per noi italiani, è il sacro e verace vangelo della nostra patria” ( pp. 19-21 ). Ma poi Del Mastro ricorda il giudizio del Croce: “Epperò giustamente Benedetto Croce affermò che ‘se il Foscolo fosse tutto nella sua vita pratica e nei suoi scritti critici e politici, sarebbe nondimeno uomo grande: educatore di virili generazioni, rinnovatore nei criteri così della vita etica come di quella artistica, fondatore in Italia della nuova critica letteraria’ “ ( pp. 26-27 ). Da qui il Del Mastro riparte per focalizzare il ripudio di ogni “servilismo”, verso il suo come verso tutti, e i nostri, tempi. E Del Mastro ‘osa’, per così dire, andare all’indietro, verso il Foscolo lettore di Orazio e critico letterario, in cui pulsa la passione patriottica e, con essa, la denunzia di ogni conformismo. “E perché voi possiate maggiormente conoscere il severo concetto che Egli si formò del poeta e della sua civile missione, vi leggerò una sua pagina di tono forse un po’ esagerato ma eloquente intorno ad Orazio, l’amico di Mecenate, il protetto da Augusto, di cui, se ammirò l’acutissimo e versatile ingegno, non giustificò peraltro il carattere un po’ vile e cortigianesco “ ( sottolineatura mia ).
“ Io non posso pensare ad Orazio – egli scrisse – senza meravigliarmi come egli, in grazia delle virtù del suo stile, sia raccomandato nelle scuole e nella letteratura sì ciecamente, che non si creda quanto corrompa gli ingegni coi vizi dei suoi pensieri. (..) Ma quando si vede che Orazio, volendo dare l’ultima pennellata alla pittura di un pazzo solenne, scrive insanior Labeone, e che nel tempo stesso si legge negli Annali di Tacito sì bello elogio alla scienza e alla costanza di Labeone ( “ De Constantia Jurisprudentis”, direi io oggi con Vico, in Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, Laterza, Bari 2017 ! ); chi non aborrisce la viltà d’un poeta, che insulta ad un vecchio venerando ed inerme, perseguitato dal più forte, ed a cui non rimaneva in quella condizione di Roma altro protettore ed amico che la sua virtù, né altro asilo che il sepolcro dei suoi maggiori ?.. Se per altro in alcune circostanze sarà tollerabile che si venda l’ingegno, è cosa ad ogni modo esecrabile per tutti gli uomini e sacrilega in ogni tempo il perseguitar la virtù, il calpestare la vecchiezza, l’incitare la possanza di un principe contro la debolezza di un cittadino innocente, e non per altro che per danaro” ( pp. 27-28 ).
Siamo all’indomani del delitto Matteotti ( 10 giugno 1924) e del “Contromanifesto Croce” ( 1° Maggio 1925 ). Ma nella rievocazione di Foscolo, deceduto il 10 settembre 1827 nei dintorni di Londra, Del Mastro – che pur citava con gli anni del regime fascistico, in numerazione romana, le proprie dediche agli amici, quali Angelo Zagaria e il professore di Liceo Giuseppe Cannone – poteva concludere sulle tracce della crociana “religione della Libertà”. “In queste parole, oltre al suo modo di intendere l’ufficio del poeta, è tutto il credo morale, civile, politico, patriottico di Ugo Foscolo: credo poggiato sulle sostanze più pure e più granitiche del cuore umano: sulla dignità, sul disinteresse, sulla lealtà, sul coraggio, sulla rettitudine:credo che Egli rispettò sempre, pur attraverso gli sbalzi e i sussulti delle passioni, altamente e generosamente operando come cittadino, come artista, come soldato. Così che dalla sua procellosa vita e dalla sua metallica prosa e dalla sua divina poesia un austero incitamento alla fierezza, al coraggio civico, alla bellezza, alla gloria, al puro amor di patria, alla profonda meditazione della morte, si leva perenne: incitamento, che fu e tornerà efficace agli italiani in ogni tempo, e che noi accoglieremo sempre con umiltà e con religioso fervore: poiché anime di poeti come il Foscolo sempre hanno da pronunziare parole feconde ed eterne alle anime di tutti gli uomini, massimamente alle anime dei giovani” ( pp. 28-29 ). Qui, il Del Mastro alza il tiro. Non si limita a esaltare, dentro il poeta e creatore di miti, l’amante, il combattente e il patriota; ma ne spinge le prerogative fino a condividerne il rifiuto di ogni segno di cortigianeria e servilismo. E tutto ciò estende, facendone retroagire la decisa critica persino nel sommo poeta latino, protetto da Mecenate, Orazio, attraverso una ulteriore raffinatezza ermeneutica, che risiede nella lettura contrastiva del giudizio espresso sulla onesta figura di Labeone, e da Orazio e da Tacito.
Foscolo ne aveva parlato nella lezione del 1809 “Discorso sull’origine e l’ufficio della letteratura”, così ricca di echi vichiani e splendida erudizione. Marco Antistico Labeone ( I sec. d. Cr. ), giurista insigne dell’età augustea, sarà trattato da Tacito, al par. 75 del Libro III degli “Annales”, come campione di libertà. Infatti: “Al giurista Capitone, Augusto aveva resa più rapida la carriera al consolato, in modo che, col prestigio di quella carica, potesse prevalere su Antistio Labeone, eccellente anch’egli nello stesso campo. Quell’età aveva infatti generato, nello stesso tempo, questi due benemeriti ingegni di pace. Ma Labeone, dall’incorrotto senso di libertà, ebbe fama più alta. Al contrario, la deferenza di Capitone, supina verso i potenti, lo rese più facilmente e docilmente accetto”. Così Tacito: “Namque illa aetas duo pacis decora simul tulit: sed Labeo incorrupta libertate et ob id fama celebratior. – Capitonis obsequium dominantibus magis probatur”.
Invece, Orazio nei suoi “Sermones”, I, 3, vv. 80 sgg. – rimarcava Ugo Foscolo ( maestro di Libertà per la “nuova Italia” ) – aveva così satireggiato il povero Labeone: “Se qualcuno porrà in croce il servo che, comandato di pulir la tavola, abbia leccato dei pesci avanzati e smezzati e la salsa ancor tiepida, ebbene costui sarà detto tra i savii ancora più pazzo di Labeone. – In ciò, quanto, ancora, più folle, e qual ne potrà mai essere il peccato più grande ?”. – “Si quis eum servum, patinam qui tollere jussus, / Semesos pisces, tepidumque ligurrierit jus, / In cruce suffigat, Labeone insanior, inter / sanos dicatur. Quanto hoc furiosus atque / Magis peccatum est ?”
Si badi che questo oraziano è uno dei passi più controversi, dal momento che vi si è sospettata adombrarsi un’ altra figura di Labeone; e revocata in dubbio persino la punteggiatura che forma la sintassi del periodo ! Si vedano le edizioni e i commenti della ‘Opera’ oraziana veneta del Paganino, 1516; il Richard Bentley 1711 in: 1662-1742; il Vannetti, nella edizione Bodoniana, del 1791, sino alla edizione di Ermolao Federigo, del 1817, che si meravigliava dell’asserto satirico in Orazio: “Il Bentlejo, per la grande amicizia ch’egli aveva per Labeone, ed anche per Orazio, pensò di mutare quel nome, e sciolse il nodo chiamandolo Labieno, in vece di Labeone. Altri pensano che debba ritenersi il nome di Labeone, ma ch’egli fosse alcuno da quell’ Antistio diverso”. Non è così: e non tanto per le ragioni esposte dal Timpanaro ( onde quella del Bentley non sarebbe filologia ma critica letteraria, viziata da pregiudizio ), ma – più – sol che si badi al sottile gioco linguistico che in quei versi satirici compie Orazio. Il termine ‘ius’, assonante con ‘jus’, è scelto dal dotto classico latino, proprio perché il più adatto a coprire l’area semantica, così del servo malcapitato che lecca il “sugo” tiepido avanzato dul desco, come – precisamente – del “diritto” in cui il giurista Labeone era particolarmente versato ! Notevolmente, duemila anni prima di Joyce, piace a “Orazio satiro” ‘giochicchiare’ con i doppi sensi. E il critico Concetto Marchesi, superando la questione della fonte foscoliana, che sarebbe stata attinta dall’erudito Porfirione, notava:” Non è da escludere che Labeone, giovanissimo ancora, avesse mostrato la forza e l’ostinazione del suo ingegno e che Orazio, per indole e per princìpi così diverso da lui, lo abbia qui giovanilmente assalito con l’acerbità della satira” ( Orazio. Satire ed epistole, Milano 1955 ). E Foscolo riprende nettamente questa scia. “Onorando” il Vico del ‘De Constantia jurisprudentis’, alla nota 30 del par. X del “Discorso”: “Per esse ( ‘favole della sapienza antica’ ), il Vico piantò vestigi verso le sorgenti dell’universa giurisprudenza, ed acquistava primo la meta, se la contemplazione del mondo ideale non l’avesse talor soffermato, e se la povertà, compagna spesso de’ grandi ingegni, non precedeva il suo corso”. Dove Foscolo menziona il Diritto Universale di Vico, prodromo della Scienza Nuova, dando spunti preziosi al Croce 1911 de La filosofia di Giambattista Vico ! Ma soprattutto Foscolo teneva a sottolineare:“E che dirò io di quegli scrittori che, senza celebrità letteraria, senza onore domestico, senza amore agli studi e alla patria, s’accostano a celebrare le glorie del principe ? Infami, in perpetuo, se la loro penna potesse almeno aspirare ad un’infame immortalità !” – Un secolo dopo, Del Mastro parla ai giovani, senza sfoggio di citazioni. Non ne ha bisogno ! Noi ne abbiamo il dovere e sentiamo il piacere, in sede di spiegazione storica.
I nostri letterati umanisti conoscevano bene le fonti e gli auctores; ne sapevano fruire per la “loro” attualità, per la “contemporaneità ideale della storia”. Erano “desanctisiani”, a vantaggio e con l’augurio di serbare intatta la dignità della persona, per gli alunni andriesi del Regio Ginnasio del 1927 !
Auspicio che ben facciamo nostro, per le generazioni e i giovani attuali e avvenire !
Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la Puglia – Andria
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