A proposito di Torquato Accetto ed Ettore Tesorieri (poeti e moralisti pugliesi ed andriesi)

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In questo articolo sono riportati due articoli e due saggi  del Preside prof. Giuseppe Brescia incentrati sulle figure di Torquato Accetto, l’autore del trattatello della “Dissimulazione onesta”, tornato in auge dopo la riscopertA DEL CROCE 1928 e sugli studi su Ettore Tesorieri ( La Penna insensata, Foligno 1626 ) e quindi sullo stesso Torquato Accetto. In entrambi i casi si tratta di poeti e moralisti pugliesi ( e andriesi ).

La luce e l’ombra. A proposito di Torquato Accetto e del secentismo, di Giuseppe Brescia:

Ancora Umberto Eco; (1) Pietro Sisto; (2) ed Elena Filippi si rivolgono a Torquato Accetto, per attualizzarne i riflessi estetici e letterari o i profili antropologici. (3)

A proposito del libertino Saint-Savin, ravvisa Eco: “Dietro i personaggi che lo appassionano riconosci Cirano de Bergerac, Torquato Accetto con la sua ‘Dissimulazione onesta’, Ferrante Pallavicino. C’è La Rochefoucauld, e Bossuet”.

Da parte sua, Sisto coglie la ipotesi a proposito delle origini tranesi dell’importante poeta e moralista del Seicento ( ipotesi già formulata da Salvatore S. Nigro ) e dà ampia ragione dei meriti della ‘riesumazione’ crociana del 1928, nel primo anniversario della morte di Luigi Laterza, “uno dei più solerti e tenaci fautori della fortuna della casa editrice barese” ( ‘A Trani l’amore fu tenero e crudele’ ).

Nel ‘mare magnum’ della recente fortuna accettiana, la Filippi s’inoltra sul terreno della ermeneutica e della iconologia, per ritrovare la “prospettiva” nel celebre dipinto di Pieter Bruegel, ‘La caduta di Icaro’. “La dissimulazione dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo”, come sintetizza in esergo la studiosa il pensiero accettiano. La stessa studiosa vede codesto pensiero ( “L’industria della dissimulazione tanto potente tra le contraddizioni che spesse volte s’incontrano” ), non solo per la “funzione positiva nel campo della resistenza e dell’opposizione a un determinato ‘establishment’ ”, ma – altresì – come trasparente “consegna” affidata all’artista della “Caduta di Icaro”, in virtù di “quella piena autorità che l’uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo e riserba pur a tempo quelle deliberazioni che domani saranno buone e oggi sono perniziose”, per dirla sempre con l’Accetto.

Dove notevole ci sembra soprattutto l’ampliamento del campo ermeneutico alla storia dell’arte, come ‘punto di vista’ per la nuova “Weltanschaaung” secentesca. “Giova riflettere che nessun uomo presente nella scena si rende conto di quanto sta accadendo. Soltanto ‘Perdix’, il ragazzo che per grazia divina ha subìto la trasformazione in uccello, osserva l’evento epocale. (..) Si diceva che il pittore si distanzia dal mito ovidiano, laddove presenta la caduta di Icaro al tramonto del sole, sottraendo così quest’ultimo dall’esserne la causa diretta. Ciò impone un interrogativo, che, sulla scorta di questa considerazione, appare quasi scontato: qual è la ragione della ‘Caduta di Icaro’ ? Se interpretiamo quest’ultima come un’allegoria della parabola di Anversa, quello che il pittore sembra suggerirci è una considerazione sul senso della storia e soprattutto sul tramonto. Anversa che ha brillato di luce riflessa sotto il sole del potente meriggio dell’umanesimo, al suo crepuscolo prende una direzione diametralmente opposta, scomparendo negli immoti flutti del tempo e della storia. Al centro del quadro essa lascia il posto a una luce diafana e innaturale, che non è la luce del sole, né un suo riflesso, e che simboleggia qualcosa di sinistro e di indistinto, privo per ora di qualunque connotato, destinato a prendere un giorno quel posto luminoso che fu della città della Schelda. E questo senza che alcuno abbia a notarlo. Sembra insomma che Bruegel anticipi, nella mestizia dell’incertezza, nella ‘angoscia autentica’ di fronte al nulla che campeggia al centro del quadro, quello che alla fine del secolo scorso Wilhelm Busch ebbe a dire.:.’Il mondo è come una brodaglia’ ..”

In questo ambito, sotterraneamente governato dall’angoscia, dal vuoto centralmente prospettico e senza sole, si situerebbe dunque ( per la Filippi ) la stessa tematica accettiana dell’arte della “dissimulazione onesta”. In-finità della interpretazione. Certo, la suggestione in senso estetico e iconologico resta ben parlante. Ma restiamo lontani dalla ermeneutica sempre finemente etico-religiosa che Croce stesso porgeva del gran tema e del suo grande teorico.

“Il suo breve scritto è la meditazione di un’anima, piena della luce e dell’amor del vero, che da questa stessa luce e da quest’amore trae il proposito ( proposito morale ) della cautela e della dissimulazione: parole che tuttavia suonano improprie al significato che assumono e volentieri le si sostituirebbe con quelle onde si esprime il tacere, il ritrarsi in sé, lo stornare la mente, il fissarla nella speranza, il persuadersi nella fiducia, e, insomma, il procurarsi conforto e rianimarsi di coraggio, e simili”, invitando ad “ a m a r e questo dimenticato e oscuro napoletano di tre secoli fa, che, dimostrando e raccomandando la dissimulazione, dimostra e raccomanda la sincerità”.

“Meditazione di un’anima” e “immaginazione” estetica, all’interno del rapporto dialettico tra luce e ombra, s’incidono nella vicenda del “Fortleben” di Torquato Accetto, all’interno del più vasto campo delle dottrine estetiche secentesche (ad es. Caravaggio, Federico Barocci, Annibale e Ludovico Carracci, primi soggetti della critica ragghiantiana, sulle pagine della “Critica”del 1933 ).

Proprio quando l’Accetto congegna la raccolta delle sue “Rime”, e l’andriese Ettore Tesorieri de“La Penna Insensata”, quante volte già l’arte psicologica del “tacere” e del “ritrarsi in sé” ha dovuto essere esercitata !

Insistono alla mente alcuni esempi. Michelangelo Merisi ( 1573 -1610 ) passa da Sisto V al nuovo Papa, Paolo V Borghese, gran protettore del Tesorieri, come assetato di musica sacra. Ma Caravaggio stesso, dentro la appariscente intrattabilità e protervia, non aveva sempre ricercato la “concentrazione così tesa e uno stato d’animo così denso di religiosità” ?

“La sua luce, sulle nature morte, sui corpi veri, sugli occhi smarriti o spaventati delle figure umane, prende il soffio di uno sguardo soprannaturale, carico d’amore e di pietas” ( come ben dice Vincenzo Cerami, in “Caravaggio”, su “La Stampa-Tuttolibri”, n. 813, agosto 1992 ).

Per salvarsi dalle conseguenze di non voluti misfatti ( il 28 maggio 1626, con l’assassinio di Antonio da Bologna e del Tommasoni, a seguito del degenerare improvviso di un litigio a Campo Marzio ), Caravaggio ripara a Malta, aspirando alla Croce di Cavaliere dell ‘Ordine, a mo’ di protezione. Quando la riceve, è però troppo tardi. Tratto in arresto a Napoli (all’Ordine di Malta appartennero -tra gli altri- membri della famiglia di Torquato Accetto ), in prigionia il Merisi ritrae “San Giovanni decollato”, “San Francesco in meditazione sulla morte”, il “Martirio di Sant’Orsola”, la “Crocifissione di Sant’Andrea”( Mentre, durante la fuga, ha dipinto la decollazione di Oloferne, esemplando l’autoritratto nella fronte spaccata; e a Messina, la grande e catartica “Resurrezione di Lazzaro” ). Per la febbre e le infezioni procurategli nella cattura, “si spegne nel delirio, sotto il sole di luglio, a trentanove anni, su una spiaggia infuocata”. Ma con sé porta il San Giovanni Battista, promesso al Papa per residuo tentativo di riconciliazione. Dove la luce al volto del Santo viene – si badi- dal fresco zampillare della sorgente a sinistra nel quadro, mentre il cielo è occluso, ottenebrato salvo che per un minimo velo, in alto. E “il giovane San Giovanni Battista è l’immagine della purezza adolescenziale di un uomo dal destino tragico” ( Vincenzo Cerami ).

La “dissimulazione onesta”, anche come “meditazione di un’anima” e “ritrarsi in se stessi”, certo.

E quando Tommaso Campanella, sotto il falso nome di don Giovanni Pizzuto, dopo ventisette anni di carcere in buia e stretta cella, esattamente il 5 luglio 1626 ( mentre esce a Foligno la “Penna insensata” del Tesorieri ) si reca nella Curia romana, chiamato dal Papa astrologo Urbano VIII, per assicurargli i rimedii contro infausti destini, grazie al suo “De siderali fato vitando”, – ebbene il frate domenicano non farà altro che raccomandare rituali e riservate prudenze nelle secrete stanze del Quirinale.

“Occorre anzitutto accostarsi a Dio quanto più possibile con le preghiere; è necessario poi chiudere ermeticamente la casa ( id est: il “ritrarsi in sé”), e per evitare ogni influsso negativo si spargeranno nell’aria aceto rosaceo e aromi gradevoli; si preparerà un fuoco con legni aromatici, quali il cipresso, l’alloro, il rosmarino e altri. Un punto importante riguarda l’adornamento interno della stanza fatto con panni bianchi di seta e rigogliosi rami d’alberi. In mezzo alla stanza si rappresenterà il sistema dei pianeti con due luminari e cinque fiaccole; nel cielo sarà l’eclisse ma saranno quelli i sostituti, così come di notte la lanterna prende il posto del sole (‘sicut in nocte a b e u n t e s o l e lucerna eius vices supplet’).(4)

Qui il “senso del celeste” è figura del “ritrarsi in sé”, rimedio radicale ai mali, ricostruzione di volta stellata sistema planetario, nelle stanze del Vaticano ( magari con allusione alle future “percezioni del celeste”, conforto ai mali e tragedie storiche ).

E l’ “abeunte sole”, il sole che – straordinariamente – non c’è, risponde al “sole che non c’è”, al “vacuum” centrale, nella altrettanto “straordinaria” effigie della “Caduta di Icaro”, evocata da Pieter Bruegel.

Riassumendo i termini e motivi del percorso, essi risultano: la “luce” e “l’ombra”; il “vuoto”, nel silenzio del dramma; il “senso del celeste” e la “pietas”; lo ‘spaesamento’ ed il “ritrarsi in sé” dell’anima; la “dissimulazione onesta”e il riparo dai mali; la “dilazione” della sincerità, e la “delazione” dell’invida Curia, o Corte. I diversi temi, echi, afferenze sembrano riaddursi, poco per volta, a un fòco unitario. Così piantiamo altro alberello nella “ingens sylva”, pazientemente inaugurata da “l’uomo che piantava gli alberi”, ossia ( per dirla – anche a questo proposito – con il moderno apologo dell’amico dell’Italia, Jean Giono ) da Benedetto Croce.

Ne “L’isola del giorno prima”, da cui siam partiti, il signor di Salazar raccomanda a Roberto de la Grive: “ La saggezza, signor de la Grive. Il successo non ha più il colore del sole, ma cresce alla luce della luna, e nessuno ha mai detto che questo secondo luminare fosse sgradito al creatore di tutte le cose. Gesù stesso ha ponderato, nell’orto degli ulivi, di notte”. Gli è perché : “Se gli strali trafiggono il corpo, le parole possono trapassare l’anima” ( “L’arte della prudenza”. Capo 11 dell’edizione 1994 ).

Anche se poi, inevitabilmente, il discorso si complica, dal momento che lo stesso Salazar finisce per raccomandare, in linea con le dottrine dell’ “agudeza”, l’arte del “meravigliare” ( ma al fine di ottenere “successo” ), ovverossia la concettosità, il sapersi trarre d’impaccio con una “frase elegante” e l’ “usar la lingua con la leggerezza di una piuma”, per quel che attiene tutto il concerto dei temi del barocchismo.

Anyway, il ‘ponderar’ di notte di Gesù, la concentrazione dell’anima, il valore dell’autentico “dialeghesthai”, rendono ragione ancora una volta alla “dialettica delle passioni”, al momento desanctisiano del “va e vieni”, o al “segreto interiore dell’essere” ( per dirla con Carlo Emilio Gadda a proposito della lirica “Delta” di Eugenio Montale). E in effetto, la dialettica dell’anima, ritratta da Croce a proposito dell’Accetto, non è ‘psicologistica’, ma ‘catartica’ ( dal momento che conosce, in una forma di ‘climax’, il tacere, il ritrarsi, lo stornar dalla mente, la speranza, e la fiducia, il conforto e finalmente il coraggio). (5)

Cfr. “L’isola del giorno prima”, Bompiani 1994 e l’articolo-intervista “Onda su onda la storia ci ha portati fin qui”, in “Corriere della sera” di lunedì 3 ottobre 1994; con altri riferimenti e riflessi dal “Tra menzogna e Ironia” al “Cimitero di Praga” del 2010.

Recensione alla edizione delle “Rime amorose” di Torquato Accetto, per le cure di S. S. Nigro, nei tipi Einaudi, Torino 1987, in “Gazzetta del Mezzogiorno” del 6 ottobre 1987.

Cfr. “Tra Scilla e Cariddi. Il giusto ‘mezzo’ nella ‘Caduta di Icaro’ di Pieter Bruegel, ne “Il Veltro”, XXXVII/5-6, settembre-dicembre 1993, pp. 491-496.

V. il bel saggio di Gianfranco Formichetti, “Le furie del papa astrologo”, con “Guardati dai nati sotto l’influsso gramo dell’eclisse”, ne “Il Sole – Domenicale”, del 20 settembre 1992. Su Tommaso Campanella, all’interno della “Filosofia del giusto”, cfr. i miei “L’anima e l’Occidente”.III. Filosofia del giusto – Psicologia del profondo, Laterza, Bari 2001, pp. 34-38 e “Il sogno di Castorp e il progetto di Pico”, Bari 2003, pp. 59-85.

Sul piano generale, cfr. la mia “Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva”, voll. I-II, Bari 1999-2000; e, per Caravaggio e il momento “culminante” nella rilettura di “Resurrezione di Lazzaro” e altri capolavori, il Giorgio Bassani “continuato”, ne “Il caro, il dolce, il ‘pio’ passato”, Bari 2011.

Da Ettore Tesorieri a noi, di Giuseppe Brescia

Siam partiti dalla incerta definizione della identità stessa del Tesorieri ( Ludovico Antonio Muratori 1723-1751; Riccardo D’Urso 1842; Riccardo Ottavio Spagnoletti 1890; Riccardo Zagaria 1937 ), confuso persino con un altro “Bernardo Tesorieri”, storico latino delle Crociate. Grazie al Villani e al Ceci ( 1884 e 1920; anni ’30, dal Fondo “Manoscritti”, rispettivamente ), stiamo certi della di lui esistenza, e della esistenza della “Penna Insensata”. Dopo il mio restauro critico e bibliografico del 2000, si è assistito a un rifiorire d’interessi a proposito della di lui opera, sia in Puglia ( altre mie ricerche e pubblicazioni su “Puglia”, Corsi di Formazione nel Liceo Classico “Carlo Troya”, messa in rete di testi da parte dell’Istituto “Staffa” di Trinitapoli con relativo parziale commento su “Ipogei 06”, saggio sulla rivista “Fogli di Periferia” del 1999 raccogliente un mio profilo a cura di Pietro Sisto per i Tipi VitoRadio di Putignano ); sia in campo nazionale e in Umbria ( ricerche d’archivio a Foligno e Cannara; rievocazione nel 2008 della Giostra della Quintana a Foligno, Giostra di cui Tesorieri fondò la istituzione coniandone il nobile codice “Stimolo generoso di Virtute”; altri studi sullo stile “tassesco” di Tesorieri del professor Giacalone; “Atti” del Bollettino della Giostra della Quintana; ricerche di Anna Maria Rodante e Paola Monacchia; esecuzione prima in Giappone poi a Foligno e Cannara e in Andria della Missa cum quinque vocibus “Laudato sempre sia” e, per l’arrangiamento del maestro giapponese, anche della Missa “In Tribulatione” ) e a Roma ( per addentellati con artisti e famiglia di Papa Paolo V Borghese ).

Si perviene, così, alla definizione, pur in età barocca, e nel vivo gusto delle metafore e della concettosità o “agudeza” ( Baldesar Graciàn ), di una forma di “classicismo etico” di Tesorieri, non senza la istituzione di un terreno comune con il poeta e moralista Torquato Accetto, l’autore del trattatello “Della dissimulazione onesta”, riscoperto dal Croce nel 1928.

“Uomo di guerra e uomo di pace”, poeta musico e amministratore integerrimo a un tempo, può dirsi Ettore Tesorieri. Il Cirocchi, nella prefazione alla ‘editio princeps’ de “La Penna Insensata” (1626), ricorda che Tesorieri perse il figlio Riccardo, quando questi aveva soltanto “ventisei lune”, cioè appena due anni e due mesi, confermandone la nascita al 1623. Tesorieri invece, nel 1626, aveva settantatré anni: di famiglia e poesia, dunque, già adulta e matura, esperta de gli vizi umani e del valore. Nel sonetto “Al dottor Morichi per la morte di Riccardo mio primo, ed unico, figliuolo” ( si badi al diminutivo vezzeggiativo e affettivo), Tesorieri cantando disacerba il dolore ( petrarchescamente, come prima dantescamente, diremmo ): “Stagion dura, aspro gelo, e fiera stella, / a l’horribil contagio accrebber forza / Contra la pianta pargoletta e bella. / Onde a pianger sovente il duol mi sforza, / E mia fortuna sì, che ria novella / Ben tosto havrete di mia frale scorza” ( alla pag. 17 della edizione folignate del 1626 ). L’ “horribil flagello” è la peste, delle cui ondate successive e impietose – in tutta Italia – ho procurato il regesto nella Prima parte dei miei studi.

Ricerche d’archivio, svolte a Cannara, hanno dimostrato la sua data di nascita in Andria il 6 giugno 1553, morto in Foligno il 25 novembre 1638. Sepolto nella Chiesa di San Matteo, in Cannara ( dove s’era trasferito nel 1594 ), aveva sposato in prime nozze la nobildonna Beatrice Contucci di Cannara, da cui ebbe il primogenito Riccardo, premortogli con la consorte. Successivamente sposò Agata Feltri, sempre di Cannara, da cui ebbe altri due figli, Francesco Riccardo ( a memoria del compianto primo ) e Aniceto. Il primo nome del secondogenito onora, in effetti, la devozione della terra francescana. Verbali d’ingresso al Terzo Ordine Francescano ( custoditi nell’Archivio Storico del Sacro Convento di Assisi )ci informano che, il 15 novembre 1638, Ettore Tesorieri chiese e ottenne l’ammissione in quell’importante Ordine religioso.

Tesorieri – ottantacinquenne – si sente oramai vecchio e stanco. Ha amministrato con saggezza il fisco; ne ha sentito, persino modernamente, la parziale “iniquità”; ha invocato le dimissioni dal gravoso ufficio al Baglioni, corrispostone con ogni stima; ha fondato la Quintana, nel sogno cavalleresco di antica “virtute”; ha musicato ed eseguito in Roma per Paolo V Borghese; ha combattuto malfattori e delinquenti comuni, per le loro aggressioni fin nelle Chiese. Ha coltivato il sogno, la dignità della persona, la poesia e le arti. Allude alla “dissimulazione onesta”, al riparo dal vero e al ritiro nell’ “ombra” ( ‘Leit-motiv’ del conterraneo Torquato Accetto ), scoprendo un filone etico, estetico e antropologico di grande interesse, nell’orbita – da lungi ruotante – del pensiero dei moralisti del Seicento. Ha esaltato, tra passioni e luce, la città d’adozione, “Fulginia”, Foligno, etimologicamente – come per “Assisi”/ “Ascesi”( ma “direbbe corto”, ammonisce padre Dante, nell’ XI del Paradiso, chi si limitasse alla prima “figura” ) la cittadina “fulgens”. Ha indicato, infine, tra i contrasti terreni e le durezze dell’amministrazione  pubblica, il senso del celeste e del divino. Storicisticamente, nel senso dato al termine “storicismo” da Meinecke o Dilthey, come aderenza cioè ai costumi e stili di vita del tempo, chi non voglia ricorrere – a proposito anche del Tesorieri al celebrato “Cannocchiale aristotelico” di Emmanuele Tesauro, agevolmente può ricorrere ai “Cieli immense arcate”, i “Coeli ingentes fornices”, immaginati da Cicerone nel suo “Oratore” ( “De oratore”, XIII, XL, 162 ), e ripresi da Giuseppe Battista ( Grottaglie 11 febbraio 1610 – Napoli 6 marzo 1675 ), pugliese come Tesorieri ed Accetto, iscritto alla napoletana Accademia degli “Oziosi” e sensibile al tema della ‘onesta’ “menzogna”, per illustrare il senso della “prospettiva” celeste, nelle lettere a Giambattista Manso, a integrazione della tesi seguita dal Segretario dell’Accademia napoletana.

“Sono gli archi e i cieli, per istringer la cosa in brevità più chiara, simiglianti, se non in tutto, in quella mezza parte almeno che de’ cieli noi veggiamo.. Basta al poeta di nominar le cose come paiono, se non come sono. Orazio disse che fosse la luna maggiore dell’altre stelle, non perché ella sia tale, ma perché maggior rassembra alla nostra veduta” ( dalle “Odi”, I, XII, 47-48: “..velut inter ignes luna minore”: cfr. Giuseppe Battista, “Opere”, a cura di Gino Rizzo, Congedo, Galatina 1991, lettera n. XIII, p. 458 ).

Pure, storicisticamente ancora, ma nel senso conferito – questa volta – al termine da Gustav Droysen o Croce, di indagine sollecitata da una “domanda” o “problema” che rende la storia sempre “idealmente” ‘contemporanea, il senso del celeste, richiamato anche da Ettore Tesorieri, fa pensare al “senso oceanico” coltivato nella disperazione indotta dai totalitarismi in Arthur Koestler di “Buio a Mezzogiorno” e “Schiuma della terra”; al culto di Dante Ariosto e Tasso che confortò i tanti esuli e perseguitati del Novecento ); e prima ancora ( magari ) all’ “Infinito” di Leopardi, al Pierre Bezuchov di Tolstoj o all’ “arco in cielo” del Baudelaire.

“Chi cancella il passato, s’impossessa anche del futuro”, ammonisce George Orwell. Ecco: Tesorieri ci vuol sembrare un “grande”, “accensore di fuochi” ulteriori. Che non si dimentichi, con lui e con i valori di nobiltà e trasparenza sopra raccolti, il “passato” ( degradato a mera erudizione, pagina spenta e non più parlante per noi ), onde si consenta a nuovi “ideologi-tecnocrati” di impossessarsi, malauguratamente, del nostro “futuro”.

Per li rami di Torquato Accetto, di Giuseppe Brescia
Napoletano forse, tranese “quasi certamente”, andriese forse, certo pugliese, il notevole moralista secentesco e poeta coltivato Torquato Accetto, è detto a riprese. Un foglio d’Archivio di Stato napoletano, un rogito notarile a Trani, faticose ricerche di fonti infruttuose, non bastano – sole – ad accertarci della verità ( Croce, De Frede, Salvatore S, Nigro, Ripari e altri ).

Croce, “l’uomo che piantava gli alberi” ( altra volta, leopardianamente, dissi: “Pochi accendono i fuochi; molti vi si riscaldano intorno” ), ripubblicò “Della dissimulazione onesta” col Laterza, nel 1928. Poi, intorno all’alberello piantato, continuò a spianare un bel po’: e tutt’intorno è fiorita e cresciuta, di poi, enorme “ingens sylva”. Ma lo stesso Croce, anche con l’aiuto dell’ andriese Giuseppe Ceci, l’instancabile compagno di studi al Collegio della Carità e collaboratore della “Napoli Nobilissima”, della Società di Storia Patria e di tante indagini erudite, nel 1928, nella “Critica” (XXVI, pp. 221-226 = “Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento”, Bari 1931, pp. 82-90, e 1949, 2^ ed.), aggiunse notizia di un codicillo contenente un documento del 1618 del Banco di Napoli donde risulta che “l’Accetto era allora ai servigi del duca di Andria Carafa” ( cfr. Banca della Pietà, giornale 83, 1618, f. 2827; anche la “Storia dell’età barocca” in Italia”, Bari 1929, pp. 155-159 ).

Preferisco seguire questa traccia, alla ricerca delle origini dell’antica e nobile famiglia, andriese, degli Accetto. Varianti ne sono “Accetto”, “Accetta”, o addirittura, “Aveta”, “Aceta”. Il che, essendo di norma dall’età medioevale in su, certo non deve stupire ( e non solo in Puglia ma in tutt’Italia: si veda a Ferrara, per tacer d’altro, il caso “Avogaro”, Avogari”, poi “Avogadri”, pel mago che collaborò con Pellegrino Prisciani al progetto iconografico e astrologico per l’esecuzione del Salone dei Mesi a Schifanoia).

Intanto, un “Accetto”, “Acceptus”, risulta il celebre scultore di Canosa, del secolo XI, alle origini dell’arte medioevale di stile romanico ( cfr. Carlo Villani, “Scrittori e artisti pugliesi antichi moderni e contemporanei. Nuove addizioni”, Morano, Napoli 1920; M. Wackernagel, “La bottega dell’ ‘Archidiaconus Acceptus’ scultore pugliese dell’XI secolo”, nel “Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione”, I^ Serie, II, 1908, pp. 143-150 e “La scultura pugliese verso la metà dell’XI secolo”, in “Rassegna Pugliese”, 1910, pp. 151-161; Giuseppe Ceci, “Bibliografia per la storia delle arti figurative nell’Italia meridionale”, Napoli 1937, s.v.; Piero Toesca, “Storia dell’arte italiana”, 1927, Torino 1965, 7^ ed., p. 868; Ciro Angelillis, “Il santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo”, Foggia 1956; J.-P. Gaborit, “L’ambon de Sancte Marie de Siponte et les origins de la sculpture romane en Pouille”, nei “Melanges R. Crozet”, 1966, p. 253; Alfredo Petrucci, “Il primo scultore pugliese”, nel “Mattino” del 12-13 luglio 1919 e “La bottega dello scultore Acceptus”, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 17 luglio 1927, poi “Cattedrali di Puglia”, Bari 1960, p. 36; H. Schafer-Schuchardt, “Die Kanzeln des 11.bis 13. Jahrunderts in Apulien”, Wurzburg 1972, pp. 14-20; e Pina Belli D’Elia, “Alle sorgenti del romanico in Puglia.XI secolo”, Bari 1975, passim ).

Della famiglia, di nobili origini, si hanno notizie in Andria a partire dal Trecento. Suoi membri o esponenti ricoprono con lustro importanti cariche civili o ecclesiastiche. Si ricordano il Padre Giuseppe Accetta, dei Frati Minori Osservanti ( nati il 1424 ), di cui la Cronaca del Wadding: “Joseph Aveta, alias Aceta, Andriensis Apulus, egregius poeta, cecinit ‘vitam et miracula S. Francisci’, decem libris distincta(m), carmine heroico latino”. La notizia è ripresa dal canonico Riccardo D’Urso ( “Storia della città di Andria”, Napoli 1842, p. 196 par.5. “Nel Monastero de’ nostri Minori Osservanti fiorì nel 1673 il Padre Fra Giuseppe Accetto Andriese, Poeta esimio, il quale con carmi eroici scrisse la vita del Patriarca S. Francesco in latino idioma”: ‘Memorabilia minoritica Prov. S. Nicolai’, Par. 2, Cap 3 ). E dal chiaro erudito, il citato Giuseppe Ceci, nei Mss. CECI, Cartella 12: “Andria famiglie nobili, alberi genealogici”, Parte III, ff. 1-2, della Biblioteca Comunale “G. Ceci” di Andria, con catalogo riordinato da me e da Pasquale Barbangelo.

“Il casato Accetto è abbastanza antico, e per quanto avessi potuto rintracciare notizie su questa famiglia, m’è riuscito sempre inutile. Mancano quindi chiare notizie, per dare un cenno storico. Tolgo dal D’Urso quel tanto che già è scritto: ‘Di nobile casato è stata fin dalla sua origine, tanto che in alcune carte si rinviene sempre col titolo di ‘nobilis civis’. Il 1673 nel convento dei M(inori) O(sservanti) di Andria fiorì un P. Giuseppe Accetto che si distinse chiaramente nel dare alla luce varie opere latine e fu ancora poeta ( Scrisse la ‘Vita di S. Francesco e suoi miracoli’ in latino, in 10 libri). Nella medesima Chiesa esiste la sepoltura gentilizia oramai corrosa dal continuo calpestìo, ed appena si raffigura l’arma gentilizia, lo scritto è sparito. Varii autori sommi hanno citato spesso il P. Accetto per la sua erudizione. Verso la fine del XVII secolo vi furono varii canonici, uno dei quali fu priore di San Riccardo. Nel 1892 la stirpe venne estinta interamente con la morte di un Tommaso, morto di decrepita età” ( l’appunto del Ceci risale, secondo noi, ai primi del Novecento ).

In Andria ci sono un Palazzo Accetta, e una via Accetta, del Seicento, in centro storico. Si conoscono un Nicola Accetta ( 1700 )e un Baldassarre Accetto, padre di Torquato, la cui madre fu – come dice Croce – Delia Sangiorgi. Nella Chiesa di Santa Maria Vetere, in Andria, francescana, esiste il sepolcro della famiglia, fatto costruire da un altro “Baldassarre Accetta” ( nel 1702 ). Il cui stemma, sulla pietra sepolcrale, è un “leone con l’accetta e la Croce di Cavaliere dell’Ordine di Malta”. Segno che contraddistingue l’onore della famiglia, è altresì la iscrizione: “BALDASSARRE SENIOR ACCETTA // AC JUNIOR CONDIDIT ILLE SIBI, HIC POSUITQUE SUI // ANNO 1702”( che sarebbe: ‘Baldassare Accetta seniore e quel famoso più giovane costruì per se, e qui pose egli stesso e i suoi, nell’anno 1702’). Sì da suggerire la pur remota ipotesi, possa trattarsi di padre e figlio di Torquato Accetto, rivenienti forse dall’Ordine dei Cavalieri di Malta, in pieno Seicento.

Mentre attendo dall’Archivio di Stato di Napoli nuove prove ( copie degli atti ufficiali nascita e morte ), piace fantasticare, un poco nello stile delle crociane “Storie e leggende napoletane”. Si sa, per certo, che il 29 dicembre del 1621 l’intiera famiglia si riunì a Trani nello studio del notaio Francesco de Sandoli per un atto di “retrovendita”, custodito nella sezione di Trani dell’Archivio di Stato di Bari ( a. 1620.1621, Prot. 703, alle cc. 435-36 ). Donde, ma senza documenti, opina il Nigro, esser “quasi certamente” l’Accetto nato a Trani ( Postfazione alla riedizione del trattato “Della dissimulazione onesta”, Genova, Costa e Nolan, 1983, p. 96 ). E di una “Laura Accetto” ( ‘non si sa imparentata’ con Torquato ), fattasi suora nel 1624 a diciannove anni, rende notizia un documento “Die 24 mensis Aprilis 1624”, della Biblioteca Diocesana di Trani. Poi ci sono le lettere di Lucio D’Urso, da Trani ad Andria, del 1626-1627; e soprattutto di Angelo Grillo ( 1608-1612 ), specialmente del venerdì 1612: vòlte tutte a Torquato Accetto.

Per curiosità, conosciamo ( sempre dagli appunti manoscritti di Ceci ) un Nicola Accetta, andriese, del 1700; e una Irene: “una Irene Accetta sposò Riccardo Tupputi, figlio di Domenico Antonio Tupputi (1763-1852 ) di Andria, famiglia nobile e valorosa per dottrina, nel corso del 700” ( MSS. CECI, cart. 12, 35 ). E’ poi interessante che, nella pagina della Rivoluzione del 1799, la famiglia si divide con un Priore Riccardo Accetta, schieratosi dalla parte di Ettore Carafa, e Tommaso Accetta che invece fa parte della organizzazione civica che tenta di resistere all’assalto del Conte di Ruvo: lo stesso Tommaso Accetta che fu sindaco di Andria dal 1799 al 1800, e morì nel 1811 ( cfr. Pietro Petrarolo, “Andria dalle origini ai tempi nostri”, Andria1990, pp. 108 e 204, 107 e 201 rispettivamente ). Ancora, di un Annibale Accetto, morto il 1842, Giudice Regio, scrive il D’Urso: “Del ceto dei galantuomini e dottori ( che io nomino com’erano situati nelle sedie di prospetto all’altare)”, sedeva – tra gli altri “D. Annibale Accetto” ( cfr. “Apertura del Sacro Sepolcro di S. Riccardo”,paragrafo del 1836, in “Storia della città di Andria”, Napoli 1842, cit., pp. 179-180 n. 2 ). Topograficamente, infine, resistono alle inclemenze del tempo la strada Tufarello-Accetta, nel territorio tra il Santuario di Santa Maria dei Miracoli e Andria; due pilastri poderali con nicchie votive lungo la medesima strada, e un altro pilastro con nicchia votiva nel tragitto Tufarello-Accetta, quasi a segnare vestigia della via della devozione andriese, per antonomasia ( Cfr. A. Lomuscio – R. Losito – B. Miscioscia – N. Montepulciano – V. Zito, “La lama di S. Margherita e il Santuario della Madonna dei Miracoli”, Regione Puglia, Tipografia Miulli, San ferdinando di Puglia, 1999, pp. 105-108, foto 3a, 9 e 10 ).

Conclusivamente, e insieme provvisoriamente, stante la mancanza di prove documentarie certe, si può tuttavia dire che le tracce lasciate nella storia della città di Andria, le antiche origini della famiglia, la ripetuta esponenzialità di suoi componenti nel mondo civile ed ecclesiastico, il crinale sottile stabilito tra ordini religiosi e laicato, appartenenza al francescanesino e al prestigioso Cavalierato di Malta di vari membri della famiglia, la presa di posizione controversa nel forte della Rivoluzione e comunque l’adesione a valori civici e di amministrazione della cosa pubblica, confermano la preminente appartenenza, e dunque assai probabile origine, alla città di Andria dello stesso Torquato Accetto.

Ettore Tesorieri e Torquato Accetto, di Giuseppe Brescia.

Di tanto in tanto, affiorano tortuose vie della storia: e quando il tocco della “leggerezza” interviene a rinfrescare la spessa coltre della erudizione, – “Pochi accendono i fuochi; molti vi si riscaldano attorno”, echeggia la lezione davvero magistrale di Giacomo Leopardi, nello “Zibaldone dei miei pensieri”. Ettore Tesorieri ( Andria 6 giugno 1553 – Cannara Umbra 1638 ) da me riscoperto, segnatamente per “La Penna Insensata” ( Alterj, Foligno 1626 ), poeta musicista amministratore alla Corte dei Baglioni di Foligno, per i quali codificò la Giostra della Quintana con il Programma cavalleresco “Stimolo Generoso di Virtute”, appartenne alla generazione precedente rispetto a quella di Torquato Accetto. Figli entrambi di famiglie assai stimate, se non nobili, della città di Andria, estintesi nel corso del Settecento, respirarono l’aria della cosiddetta “dissimulazione onesta”, in parte del “nicodemismo”, l’arte della finzione di conversione nel secolo della Controriforma ( da Nicodemo ), di cui discute la recente storiografia etico-poilitica: benché il primo in veste letteraria, il secondo nella chiave più marcatamente etica e moralistica ( cfr. Carlo Ginzburg, “In margine al motto ‘Veritas filia temporis’ “, nella “Rivista Storica Italiana”, LXXVIII/4 (1966), pp. 969-973 e “Il nicodemismo : simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del ‘500”, Einaudi 1970; Remo Bodei, “Ragion di Stato e dissimulazione onesta”, in “Geometria delle passioni”, Milano 2010, pp. 144-148; Rosario Villari, “Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento”, Bari 1987, pp. 30-42 ). Tesorieri accenna nel suo Proemio alla “Penna insensata” all’arte di “celar il vero”. Ma mantiene, nel contempo, sempre alta una vera profondamente religiosa, il senso del celeste, una forma di stoicismo etico o cristiano ( v. le rime in morte del figlio Riccardo, il codice dettato per la Giostra, l’impegno di onesto e instancabile amministratore, quasi da uomo “di pace” e “di guerra” insieme ). Così, il suo stile assorbe il naturale tributo all’enfasi e al gusto metaforico del secentismo, il gioco delle antitesi, la volontà encomiastica verso i Signori di Foligno o la Baronessa napoletana cui si confida. C’è una volontà di “Verità” e “trasparenza” maggiore, che han fatto rinvenire nella sua poesia echi tasseschi ( e prima ancora classici, danteschi o petrarcheschi ). Per parte sua, l’Accetto ( di famiglia attestata nelle carte della Biblioteca Comunale di Andria “Giuseppe Ceci”, “Accetto” o Accetta”; e “al servigio di Diomede Carafa di Andria”, scoprì Croce in un rogito notarile napoletano del Seicento ), nato intorno al 1590 circa, riceve e rielabora molto del modello del “segretario”, il “segretario” che gli apre – per così dire – la via, dell’onore e della fedeltà( v. la canzone “Servir da segretario”, nelle “Rime scelte” IV; e il trattatello “Della dissimulazione onesta. Rime”, ed, Ripari, BUR 2012, p.192: ma riscoperto dal Croce, con edizione pregevole del Laterza, del 1928 ).

Quando nasce, l’Accetto, Ettore Tesorieri sta già per partire, chiamato dal Cirocchi e sulle vie della antica “transumanza”( fors’anche in fuga dalla peste ), verso Foligno e Cannara Umbra. Nella terza edizione delle proprie “Rime”(1638), Torquato Accetto ne muta la compagine, rafforzando la vena di riflessione morale. I due “auttori”( di origini quasi sicuramente, entrambi, pugliesi o andriesi: chi vuole l’Accetto nato a Trani non ne allega fonti documentarie, ma solo lettere a lui volte dal marchese del Grillo )entrano in pieno in quella che Carlo Antoni chiamò la grande stagione etnografica psicologica e moralistica del Seicento, “Fase intermedia” tra Umanesimo e Storicismo. D’altra parte, il ceppo originario, da cui prese l’avvio – per distinguersene nel nome – il casato “Tesorieri”, era quello dei “Conoscitore”, bene attestato nelle cronache del giovanetti andriesi, simbolo di “fedeltà” a Federico II (1230). Si può dire che, in certo modo, alla fine, Tesorieri ridiventi “Conoscitore”, in circuito spiralico ideale ( v. “Missa cum quinque vocibus Laudato sempre sia”; “Missa in tribulatione”, eseguite in prima mondiale da un Maestro giapponese; poi a Cannara Foligno e Andria ). Lo attesta anche la raccolta “matura”- da ultrasettantenne – de “La Penna Insensata”(1626), con lo sgomento verso la violenza, il fiscalismo, l’insedia degli inganni e della frode che il Tesorieri, chiamato a combatterli, vorrebbe respingere lontano, via da se stesso, in versi assai nobili. Della Accademia Degli “Insensati”( a Perugia ), il primo, e grande, Ettore. Appartenente agli “Oziosi” ( in Napoli ), e della cerchia del letterato Manso, alla cui “Poesie nomiche” collaborò, il secondo, Torquato. Si restituisce, così, un vero e proprio “aspetto” di vita intellettuale, morale e civile; né più soltanto una “pagina”, degna di investigazione o acquisizione “erudita”.

Qualche professore ( S.S.Nigro ) ha inteso ricamare, sottilizzando, su liniti della “riesumazione” crociana ( per l’edizione del trattatello di Acetto nel 1628 e studi conseguenti ): dimentico del grande pensiero leopardiano da cui siam partiti. Ma il débito iniziale riesce afforzato dalla ricomposizione ermeneutica di Testi e vicende. Vediamo meglio.

Nel Seicento, il ‘segretario’ è il “fedelissimo guardator de’ segreti”, già da Torquato Tasso in avanti ( “Il Secretario”, Vittorio Baldini, Ferrara 1587, p. 26 ). Tesorieri serba tracce del “celar il vero”, ne “La Penna Insensata” ( 1626 ). Saper mantenere il silenzio, “arguto” e “discreto”, della “dissimulazione”, è la verità di Sileno, o ancora la figura di Arpocrate, “chiuso nello scrittoio con un dito premuto sulle labbra” ( cfr. Salvatore S. Nigro, “Lezione sull’ombra”, come introduzione alla edizione delle “Rime” di Accetto, Einaudi 1987, p. XI; “Scriptor necans”, introduzione di Giorgio Manganelli alla riedizione della “Dissimulazione onesta”, a cura dello stesso Nigro, Costa e Nolan, Genova 1983, pp. 19-33; “Usi della pazienza”. Introduzione per la medesima operetta, Einaudi, Torino 1997; cura della raccolta di AA. VV., “Elogio della menzogna”, Sellerio, Palermo 1992).

Ma propriamente il Croce aveva aperta un ulteriore “sentiero”: lo studio della cosiddetta “Arte dei cenni” di Giovanni Bonifacio ( 1616 ); e dell’arte di “congetturare gli affetti e i costumi nascosti”, nel “De coniectandis cuiusque morbus et latitantibus animi affectibus, semiotiké noralis, seu de signis” ( 1625 ), tempestivamente commentati nel “Il ‘linguaggio dei gesti’ “ ( “La Critica”, XXXIV, 1931, pp. 224 sgg. ). Topica ripresa in “Varietà di storia letteraria e civile” ( Bari 1935, I, pp. 273-275 ), a proposito del Bonifacio; “Storia dell’età barocca in Italia” ( Bari 1929 e poi ed. Adelphi,  Milano 1993, pp. 106 e 122-127 ); fino ai “Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento” ( Bari 1931, p. 22o n.4 ), per il Chiaramonti.

Dietro il proliferare delle analisi stilistiche, le vivisezioni della complessità metaforica, le varie allusioni al potere interiorizzato nel “silenzio” ( “non essendo altro il dissimulare, che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo”, come recita il capitolo IV del Trattatello ), si discopre, allora, piuttosto, una forma di “stoicismo etico”, in grado di muovere da Tesorieri stesso verso l’Accetto ( persino, “cristiano” ); e, più in generale, nella visione del mondo del “Secentismo”  ( C. Varese, E, Raimondi ).

Così, “Alla virtù si giunge per le fatiche” ( in “Rime”. XI: p. 199 della ed. BUR citata ). E la “Sua perdita in morte della sua donna” ( “Rime lugubri”. X, pp. 88-89 ) è da compararsi con il capo XXI del trattato ( “Del cuor che sta nascosto” ), anche alla luce dei versi lucreziani del “De rerum natura” ( II, 7-10 ), che epifanizzano, o ‘ rivelano’, una vena di “stoicismo cristiano” ( ibidem ).

“La quiete d’ogni desiderio è nel cielo” ( ancora in “Rime sacre”. XXVII: p. 162 ) e “Al timor di Dio” ( “Rime sacre”. I, pp. 129-131 ) sorreggono questa ispirazione. Quando si riapre “la via al cielo” ( nelle stesse “Rime”. XII, pp. 158, 167, 172-173 e 178-179 ), si avverte insistente il “balcone” di Dante per la “bella aurora”, nella “Infelicità di questa vita” ( p. 152: “Rime”.XV ) e per la “vaga aurora” ( “Rime varie”. II, 170 ). Infine, in “Rime morali” ( XXV, p. 125 ), splende il “senso del celeste” – soprattutto con “L’amore”: quel senso del celeste che salverà, di poi, Leopardi e Baudelaire, Bassani e Ernesta Battisti, il Pierre Bezuchov di “Guerra e Pace” e l’Arthur Koestler di “Buio a Mezzogiorno” ( cfr. i miei “Radici di Libertà”, Bari 2011; “Il vivente originario” e “Tempo e Idee”, Albatros, Milano 2013 e 2014 ).

Rileggiamo il sonetto, “Infelicità di questa vita”.

“ A pena apre il balcon la bella aurora / che ‘l dì sen fugge e si nasconde in mare, / e la vita, che dolce e lieta pare, / torbida è sempre e non è più d’un’ora. // Foll’è chi troppo brama e s’innamora / di fiamme che non son mai tutte chiare: / o cieche voglie, perché tanto avare / qui dove essere non può fate dimora ? // Il tempo fugge, deh fuggite insieme, / poiché il restar non vi farebbe onore:/ ecco gli abissi e le miserie estreme. / Itene al ciel, dove l’acceso amore d’amaro pianto e di martir non teme, / e ‘l giorno in grembo a l’acque unqua non muore”.

O lo stupendo attacco de “L’aurora” ( ed. cit., p. 125 ): “Già dal letto celeste / sorge la bella aurora, / le stelle discolora / con la vermiglia veste.// Porge con bianca mano / le prime luci al giorno, / pria ch’esca il carro adorno / co ‘l sol da l’Oceano”.

E “La quiete d’ogni desiderio è nel cielo” ( p. 167 ): “I’ non so dir che voglio, / ben so ch’altro non sento, / se non dal mio desir pena e tormento. / Nel terren, benché fermo, /non è mai fermo il core, / ma là dove si gira ogni splendore; / ivi ad affetto infermo / non lice aver ricetto, / ivi è la voglia eguale al suo diletto”.

E in “Costanza del suo affetto” ( vv. 53-59: pp. 94-95 delle “Rime lugubri” ): “Onde par che mi dica / l’alma leggiadra e bella: / – Deh fuggi, o fedel mio,questi altri affanni. / Talor sembrai nimica / per non rendermi ancella / del cieco senso, e n’evitai gli inganni”.

Fino a “Quando giunse al quarantesimo anno stando il Sole in Leone” ( in “Rime morali” IX, p. 105: utile, indispensabile anzi, per retrodatare, a partire dal 1638, anno della terza edizione delle “Rime”, la data di nascita di Torquato Accetto, forse in Andria, al luglio 1598 ).

“Da quando i’ nacqui il sol giunto è quaranta / volte, là dove seco oggi risplende, / quindi mia vita

un nuovo giro prende; / ma chi l’intiera vita promette e manda ?” ( seconda quartina, densa di motivi astrologici, connessi al “nobile Leon” !)

Tutto ciò conferisce la “maggiore castigatezza” alla “aspra mia sorte”, – confida Accetto in “Costanza del suo affetto” ( ed, del 1638 ); impegnando le modifiche alla struttura della di lui raccoltina ( I, 13 ), passata dal 1621 al 1626 e dal 1626 ( data di pubblicazione della “Penna Insensata” di Tesorieri ) al 1638. Si adempie, in questi modi e questi temi, una “ridefinizione dei modelli poetici”( come chiosa il Ripari, alla p. XXX della Prefazione alla nuova edizione del volume accettiano ). E si acclara una “Ascesi stoico-cristiana”, nella analisi ermeneutica di M. Pacioni ( “Apocalittica. Dissimulazione onesta”, in “Apocalissi e letteratura”, Bulzoni, Roma 2005, a cura di Ida De Michelis, alle pp. 125-142 )

Giuseppe Brescia – Libera Università “G.B.Vico”- Sezione andriese di Società di Storia Patria

Nota (VideoAndria.com) : Ettore Thesorieri, in alcuni casi trascritto anche come Ettore Tesorieri (Fonte: Wikipedia.org)

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