In Italia, circa 250 mila persone sono affette da una malattia infiammatoria intestinale (IBD) equamente distribuiti tra rettocolite ulcerosa (RCU) e malattia di Crohn. Patologie impegnative per le quali però i pazienti possono contare su tante diverse terapie che potrebbero essere a loro volta migliorate in base alla presenza di un biomarcatore: le IBD sono malattie autoimmuni croniche a forte componente infiammatoria che, lasciate senza una terapia adeguata possono portare ad una serie di conseguenze importanti (stenosi intestinali, fistole, ecc). Per questo è molto importante la diagnosi precoce seguita da un trattamento tempestivo. Per le forme più importanti, un’arma formidabile è rappresentata dai farmaci “biologici”, ai quali approda nel corso della vita il 40-50% di questi pazienti: i primi introdotti in terapia sono gli anti-TNF (fattore di necrosi tumorale). Tuttavia, il 20-40% dei pazienti non risponde a queste terapie o smette di rispondere dopo un breve periodo. In particolare:
la presenza di pazienti affetti da RCU con meccanismi infiammatori indipendenti dall’azione del TNF-alfa potrebbe aiutare a spiegare l’inefficacia della somministrazione di farmaci anti-TNF in questa categoria di soggetti. Lo conferma l’esito di uno studio coordinato dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e dall’Università del Salento, coordinato dal dottore andriese Loris Lopetuso, (Gastroenterologo del team del professor Antonio Gasbarrini, direttore UOC Medicina Interna e Gastroenterologia presso la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS) e dal dottor Marcello Chieppa, ricercatore presso l’Università del Salento. La ricerca ha dimostrato che in molti dei pazienti con questa patologia sono presenti alti livelli nel sangue della proteina interleuchina 1 beta, che può indicare la mancata efficacia dei trattamenti comunemente utilizzati in questa patologia e quindi indirizzare verso una terapia alternativa. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cellular Molecular Gastroenterology and Hepatology e aprono la strada all’uso di specifici farmaci per il trattamento delle malattie intestinalil, suggerendo così un modo per individuare da subito i pazienti che hanno scarse possibilità di risposta agli inibitori del TNF alfa, per dirottarli dunque subito su un altro biologico.
“Utilizzando un approccio combinato tra analisi cliniche e modelli sperimentali – spiega Lopetuso – i risultati dello studio hanno individuato una sottopopolazione di non respondere agli anti-TNF, caratterizzati da alti livelli di interleuchina 1 beta (IL-1ß), una proteina infiammatoria estremamente potente. Nella seconda parte dello studio – prosegue – è stato utilizzato un modello animale (topo) di rettocolite ulcerosa TNF-indipendente; il gruppo di ricerca (che ha coinvolto centri di ricerca in Italia e negli USA), ha valutato la possibilità di bloccare la cascata infiammatoria dell’IL-1ß utilizzando un biologico anti-interleuchina-1 (Anakinra), documentando una buona risposta degli animali al trattamento (riduzione dello stato infiammatorio intestinale e dei livelli di cellule infiammatorie intestinali). Al momento l’anakinra non ha ancora l’indicazione al trattamento per l’IBD nell’uomo. Ma l’esperimento ha dimostrato che nelle forme di IBD caratterizzate da elevati livelli di IL-1 beta nel sangue, il farmaco funziona (almeno nel modello animale). “Abbiamo comunque già a disposizione – afferma Lopetuso – una serie di terapie biologiche alternative agli anti-TNF, quali gli anti-integrina, gli anti-JAK e gli anti IL 12/23. Questo studio è una proof of concept della possibilità di stratificare i pazienti con IBD in base al loro profilo infiammatorio. Non tutte le forme infiammatorie – evidenzia – sono evidentemente sostenute dalle stesse vie infiammatorie e alcuni pazienti hanno un’IBD ‘indipendentè dal TNF-alfa. Saperlo prima di avviare un trattamento con anti-TNF alfa evita di perdere tempo terapeutico prezioso e risparmia al paziente (e ai budget della sanità) un farmaco inutile”. In un’ottica di medicina di precisione sarebbe dunque utile individuare una serie di biomarcatori di risposta (o meno) al trattamento per indirizzare a colpo sicuro il paziente verso un biologico, piuttosto che un altro. “Il nostro studio – conclude il professor Gasbarrini, direttore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Medicina Interna all’Università Cattolica – dimostra l’importanza di ricercare fattori predittivi di risposta alla terapia biologica e fa segnare un passo avanti nella direzione della medicina personalizzata e di precisione”.
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