C’è una funzione della nostra mente a fare la differenza tra la vita e la morte. La memoria di ciò che siamo stati, infatti, riesce con efficacia a trasmetterci la certezza che ci siamo, la concretezza dell’esistere. Ricostruire con precisione (o almeno provare a farlo) il nostro tracciato di vita, quel breve tratto di esistenza che rappresenta la nostra storia, è il nostro modo di appartenere a storie più grandi. Ecco, la Storia: quella con la esse maiuscola. Quella di cui avevamo sperato di delimitare a fuoco i perimetri, forti della convinzione che la contemporaneità possa (non necessariamente ‘debba’) essere il luogo dell’emendamento all’errore; quella in cui il racconto diventa didascalico; quella del mai più.
Invece basta un cattivo risveglio, come accaduto lo scorso 7 ottobre, quando le sirene antiaeree hanno risuonato a Gerusalemme intorno alle 6.30 ora locali, avvertendo i cittadini di mettersi al riparo dai pericoli della guerra violentemente in corso tra Hamas ed Israele, per tornare ad affermare quanto il Male, oltre che essere banale, ancora a cavallo tra il 2023 ed il 2024, riesca ad essere più concreto e pericoloso di sempre. Presente. Insidioso. Crudele.
Non è un rito vuoto, tuttavia, quello che si consuma a ricordare ogni anno la tragedia delle tragedie. Volesse il Cielo che fosse solo un momento protocollare dovuto, validato dal largo consenso di gente che elabora un “no”. La memoria è sofferenza, la memoria è esercizio di empatia; un sentimento che si esercita nel provare, quasi fisicamente e lasciandosi correre il brivido lungo la schiena, la stessa sensazione dell’acrobata sul filo mentre sta per inciampare. La memoria presuppone coraggio. Ed il coraggio, purtroppo, è uno scialbo eccipiente che si scioglie nella solida impalcatura del pensiero dominante.
Facciamoci coraggio, facciamolo prima che sia troppo tardi. Tra gli slogan più efficaci che circolano sulla rete delle reti, ce n’è uno il cui messaggio è incontrovertibile, ineluttabile, inevitabile: restiamo umani. Un mantra che l’essere “umano” dovrebbe essere pronto a ripetersi, in un continuo rito di purificazione dalle brutture che ci regala un web sempre meno democratico, pronto a diffondere immondizia. Restiamo umani, come non siamo stati abbastanza, anche nel recente passato.
Quando la politica non esercita più il mandato di parlare il linguaggio del popolo e si trincera dietro la fredda logica del rito. Quando la gente non crede più a nulla, perché la speranza appartiene a chi è debole e non invece a chi crede in un domani migliore. Quando il fumo che sale dai camini di Auschwitz non dice più nulla a molti. Allora bisogna riportare alla mente, grazie alla memoria, che è il nostro ritorno ad un presente in cui siamo attori, l’ammonimento di Luis Sepulveda, lo scrittore cileno strappato alla vita dalla violenza del Covid: “…In un angolo del campo di concentramento, a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie di una pietra, qualcuno – chi? -, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”. Di questi “nessuno”, è pieno ancora il nostro tempo. Restiamo umani: occupiamocene. Anche solo con il silenzioso rispetto verso chi quell’orrore l’ha vissuto. E non in un film.
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