“Il vivente originario” – la prefazione del libro di Giuseppe Brescia

Prof Giuseppe BresciaC’è una mancanza sostanziale che fa soffrire dolorosamente il pensiero contemporaneo e del resto oscura in profondità tutti gli orizzonti del vivere nella loro integralità: si tratta dell’assenza pressoché totale di una considerazione pensante della dimensione della vita. Pochissimi sono coloro che se ne sono avveduti. Il pensatore più importante tra essi è certamente Hans Jonas, il fondatore della “biologia filosofica”, autore de “Il principio responsabilità”. La vita è il “medium” necessario e inomissibile tra il pensiero riflettente che si muove sovrano nella sfera delle astrazioni e che elabora i piani e i costrutti più universali del conoscere e la pura e semplice “materialità” dell’ordinario e comune vivere quotidiano, ed ancor più della scienza meccanicistica della natura. Fu Cartesio colui che per primo consapevolmente elaborò la teorizzazione dualistica destinata a pesare come un macigno su tutta la filosofia occidentale, fra la “res cogitans”, l’intelligenza razionale, connotata in primis dal pensiero deduttivo, e la “res extensa”, l’inerte e sorda materialità dell’esperienza. Cartesio tolse di mezzo la vita, che è caratterizzata in modo essenziale ed inequivocabile dalle dimensioni irriducibili della libertà, del bisogno della ricerca di essere che lotta incessantemente per sussistere e per propagarsi. Senza di essa, ignaro delle sue radici, la conoscenza si degrada a “pensiero calcolante” (espressione di Heidegger), e la scienza viene inesorabilmente fagocitata dalla tecnica, che si afferma oggi come la potenza che pretende di imporsi come l’unica ed assoluta signora della natura, della vita e della mente. Sempre di più si profilano all’orizzonte voci e tentativi di valore di recuperare visioni fondate sull’autoorganizzazione degli stati della materia e sulla potenza “autopoietica” della vita nelle scienze biologiche (Maturana e Varela), e non mancano scienziati autorevoli che ne ravvisano una latente operatività anche nella natura fisica inanimata (Frithjof Capra, l’autore de “Il Tao della Fisica”), e Ilya Prigogine, il grande teorico della “freccia del tempo” quale direzionalità irreversibile degli eventi del mondo. Eppure questi orientamenti sono ancora largamente minoritari nel pensiero scientifico dei nostri giorni.

In questa organica raccolta di saggi, elaborati in un lungo arco di riflessioni e di studi, Giuseppe Brescia prende l’avvio da un gigante della filosofia moderna quale è stato Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854). In particolare Brescia è affascinato dai “Weltalter” (“Le età del mondo”, degli anni 1811-14), opera incompiuta della “seconda” e “ultima” fase composta (ma secondo qualche studioso se ne potrebbero rinvenire ancora altre), del pensiero schellinghiano. Non è questo il luogo appropriato per trattare tali problematiche, né del resto l’interesse di Brescia per Schelling è storiografico. E’ sufficiente in questa sede ricordare come Schelling, suggestionato e influenzato dal pensiero di Hegel, ma anche in aperto distacco dal soffocante esito “panlogistico” del filosofo dell’”idealismo assoluto”, abbia progressivamente edificato una profonda filosofia della libertà e del male (Ricerche sulla libertà umana del 1809), della mitologia e della rivelazione (Filosofia della mitologia, 1842-46 e Filosofia della rivelazione, 1841-42, 1843-44 e 1854, ultima opera pubblicata postuma dal figlio K. F. August), in cui natura, mito e storia si compenetrano profondamente, in un’impresa di disvelamento che mai può essere condotta a termine, del significato ultimo della vita, della posizione dell’uomo nel cosmo, dei rapporti fra uomo e Dio. E vale qui la pena di ricordare come Schelling abbia avuto come uditori eccellenti Kierkegaard ed Engels.

Brescia in apertura riconosce bene quanto sia la scienza, sia la storia, sia la filosofia dell’arte oggi sembrino molto lontane dalla speculazione di Schelling. E tuttavia, molto giustamente e non senza audacia, dichiara e spiega quanto le esigenze più vere e più profonde del pensiero schellinghiano siano da riscoprire e debbano venir ripensate in vista di una riappropriazione del loro spirito più autentico.

Schelling fu vero “filosofo della vita” e pose le basi “per lo sganciamento della filosofia della natura dall’impronta causalistica e meccanicistica” (p.5, ma si vedano anche le pp.33 e seguenti). Organicismo, possibilità finalistiche, fluttuazioni produttrici di stati antientropici (Prigogine), ed un’appropriata considerazione delle più importanti conseguenze epistemologiche e soprattutto filosofiche della fisica einsteiniana, della nuova fisica quantistica e del “principio di indeterminazione” di W. Heisenberg, trovano così un posto adeguato nelle riflessioni dell’Autore, che procedono nella direzione di una riconquista delle sorgenti originarie dell’essere e del fondamento della libertà nel divenire di tutto ciò che è ( Parte I.”Tempi e problemi” ). Insieme ad una periodica ripresa delle problematiche delle tematiche fondamentali di Schelling sulla mitologia e sulla rivelazione (pp. 59 sgg., 83 sgg., 93 sgg.), larghi squarci di riflessioni sull’estetica, sulla filosofia dell’arte in Kant, in Benedetto Croce, in Rosario Assunto, in Charles Baudelaire, in James Joyce, danno viva testimonianza degli interessi dell’Autore e, nonostante appaiano a prima vista slegate dall’intento di partenza, trovano un adeguato inquadramento unitario nelle tematiche generali del lavoro concernenti l’unità profonda di arte, vita e scienza ( Parte II. “Percorsi e postille” ).

Ci auguriamo in conclusione che il libro, originale ed intenso, riesca ad imporsi all’attenzione e alla riflessione dei cultori e degli appassionati di filosofia desiderosi di ampi orizzonti di considerazione speculativa.

FRANCO BOSIO

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