“L’arte tanto intuisce quanto prospetta” – Cinema arte figurativa di Giuseppe Brescia

Buster Keaton

Se il Cinema è “arte figurativa”, come ha chiarito per vasti studi e larghi decenni il critico e filosofo dell’arte, oltre che uomo politico di militante intervento liberalsocialista e azionista, Carlo Ludovico Ragghianti ( Lucca 1910-1987 ), la sua dimensione peculiare è lo svolgimento di “valori formali nel tempo”, la “processualità” della sua appartenenza alle “Arti della visione”, illuminate proprio dalla più intima e profonda comprensione della “settima arte”. Da Cinematografo rigoroso del 1933, coevo del saggio sui Carracci, tenuto a battesimo da Benedetto Croce sulle pagine della “Critica”, fino a Tempo sul Tempo, dedica a Eugenio Montale, del terzo volume delle Arti della visione ( Einaudi, Torino 1975, 1976 e 1979 ), è tutto un amplissimo quanto coerente snodarsi di riflessioni filosofiche ed estetiche, a proposito della inerenza di valori temporali nell’opera d’arte ( consenzienti Bruno Zevi per la teoria dello spazio-tempo in architettura; Rosario Assunto per la metafisica del tempo in filosofia; Giorgio Bassani per il modello proustiano e la presenza del momento culminante nella poetica di Caravaggio con la Italia da salvare; Eugenio Montale nelle traduzioni di Samuel Beckett e nelle ricezioni di James Joyce per “Delta”, l’acclamarsi delle “epifanie” o il “dis-velamento” heideggeriano dell’essere ). Per ciò, in svariate occasioni riproposi l’assioma “l’arte tanto intuisce quanto prospetta”, mentre la prima Estetica del Croce aveva asserito: “L’arte tanto intuisce quanto esprime” ( 1902 ); e quindi: esprime “un sentimento lirico” ( 1908 ); poi: “un sentimento cosmico” ( 1917 ) ed “etico” ( 1926 ); infine un sentimento “dialettico e drammatico” ( Alfredo Parente 1953 ), perché inerente lo svolgimento dell’azione verso la propria acmé, e cioè vissuto nella “temporalizzazione” della prospettiva ( cfr. “Non fu sì forte il padre”.

Letture e interpreti di Croce, Galatina 1978; con Carlo Ludovico Ragghianti negli “Annali del Centro Pannunzio”, Torino 2017 e La “generazione italiana” del tempo vissuto, “pannunzio magazine” – “saggi” del 23 aprile 2020 ). L’approfondimento mi è tornato alla mente, accogliendo le suggestioni dell’ampio articolo di Paolo Vieta, che, sulle tracce della dottrina della dialettica hegeliana per tesi ( Periodo classico ) antitesi ( La ‘Nouvelle vague’ e dintorni ) e sintesi ( Periodo contemporaneo ), disegna “La secolare storia del cinema”, in “pannunzio magazine” – “Le 9 Muse” del 5 giugno 2020. ‘Filo rosso’ conduttore del percorso storico è essenzialmente la tecnica e l’uso della macchina da presa. Ora, sommessamente sono indotto a osservare che la “teoria del momento culminante” ben potrebbe risultare una rivisitazione della dottrina aristotelica della “catarsi tragica” nel dramma, ove la dialettica delle passioni è fondata nella compresenza di “pietà” e “terrore”, éleos e phobos, di cui l’arte tragica è risoluzione e liberazione oltre che narrazione mitica. In fondo, è codesto il precedente più illustre per l’estetica rinascimentale, romantica e idealistica, moderna e contemporanea, mutato il dovuto ( vedansi, sul punto, gli studi di Augusto Rostagni e Manara Valgimigli, Nicola Festa e Campbell: Sul testo e la fortuna della ‘Poetica’. Note di critica aristotelica, SPES, Milazzo 1984 ). Lo stesso ‘nostro’ contemporaneo Bassani inneggiava alla “catarsi” per il compimento della propria lirica, e della narrativa insieme lirica e drammatica, anche sulle tracce della “ineludibile” sua presenza nell’amato Racine. Ma il momento culminante c’è, ancora, nella mano del Lazzaro nella Resurrezione messinese del 1609 di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, come in altri capolavori del sommo artista; nella poetica cezanniana della forma perfetta ( cilindro, sfera, cono, in cui l’occhio cerca la direzione verso una prospettiva ); nella verità ideale eterna di tanti altri artisti, dalla Pietà michelangiolesca alla Zattera della Medusa di Géricault ( 1791-1824 ) sino alla Studio n. 1 del ritratto di Innocenze X di Velasquez di Francis Bacon ( 1961 ) e infinite altre fonti.

Ora, per tornare alla storia dell’arte cinematografica, a me pare che il ‘momento culminante’ della catarsi tragica, ossia la dimensione temporale-prospettica dell’azione, sia presente in tutta la sua progressione, indipendentemente dalle condizioni e specificità tecniche del campo visivo e della macchina da presa che lo inquadra. In fondo, una ‘storia del cinema’ che si attenga alla varietà o continuità dell’uso e delle modalità della ripresa, non sarebbe dissimile dalla storia dei generi letterari o artistici, di educazione positivistica ( commedia, tragedia, romanzo, poema epico e sua dissoluzione e via ), e che fu appunto confutata nella nuova teoria estetica della “forma”, del “vivente” in arte, dei valori espressivi e formali in cui il sentimento è chiamato a “calarsi” e “tradursi” ( adotto di proposito termini elegantemente desanctisiani e crociani, poi ragghiantiani, ad esclusione della possibilità di una “storia” tecnica ed esterna dell’arte propriamente detta, confutata anche nella ‘scuola’ bolognese di Roberto Longhi e Francesco Arcangeli ). A conferma di tutto ciò, trarrò soltanto una serie di significativi esempi di ‘momento culminante’, cioè di culminazione drammatica e prospettica, nel cinema “arte figurativa”, tali che lo attraversano esponenzialmente in tutta la sua secolare vicenda. Dopo Pabst, Dreyer, King Vidor e Chaplin, resta indimenticabile – proprio di quest’ultimo – il grandioso finale comico-tragico di Luci della ribalta, quando Calvero, che ha salvato dal destino di autodistruzione la ballerina Terry, dopo la macchietta del gioco delle pulci, finisce nella grancassa uscendo di scena sotto lo sguardo impassibile di Buster Keaton, mentre il pubblico ancora non capisce, affascinato dal gioco delle corde e degli strumenti che si rompono; o il carosello finale musicato da Nino Rota nel ‘joyciano’ Otto e mezzo di Federico Fellini, al cui penultimo ‘atto’ Claudia Cardinale ha detto a Guido, regista mancato per crisi etica, “Perché non sa voler bene !”. Altrettanto notevoli sono il motto “Scusate, scusate !”, in La doppia vita di Veronica di Kryzstof Kieslowskj, detto dalla cameriera all’ingresso nella Gare Saint-Lazare di Parigi, come il messaggio che permette di ritrovare Veronica al burrattinaio-mago italiano Alexande Fabbri, o il sinfonico compendio della Epistola 1, 1-13 ai Corinzi di San Paolo alla fine di Film blu dello stesso regista polacco; e l’ “Orrore, orrore !”, ripetuto dal colonnello Kurz ( che è Marlon Brando ) in Apocalypse now, libera reinvenzione di Francis Ford Coppola da Cuore di tenebra di Joseph Conrad; la frase densa di pathos ( ‘pietà e terrore’ ), “Che effetto fa un figlio skizzato ?” in Donny Darko ( Jake Gyllenhaal ) – Mamma:

“E’ bellissimo !”, nel film di Richard Kelly del 2001 con Jean Malone e Drew Barrimore; l’ “Inter arma silent leges”, duro mònito del procuratore generale Reverdy Johnson ( Tom Wilkinson ) al giovane avvocato Aiken nel film The Conspirator di Robert Redford, dedicato alla storia della condanna a morte di Mary Surratt, madre di John implicato nell’assassinio del presidente Lincoln; o ancora “Scusi, come si chiama Lei ?” – “Davids” ( detto da Henry Fonda ) – “E io mi chiamo Mc Carty” ( Joseph Sweeney ) – “Bene, arrivederci”, nel dialogo che chiude l’intenso film sulla giustizia giusta La parola ai giurati, anche con Edward G. Cobb e Martin Balsam; “Non si abbandona la battaglia !”, come insegna il comandante della difficile spedizione in Afganistan, narrata in un libro di Luttrell e poi nel film di Peter Berg, Lone Survivor, l’unico sopravvissuto interpretato da Mark Walberg nel 2005, comprese le scene finali del bambino della comunità Pasthun che salva Mark porgendogli il coltello, fino all’addio e all’abbraccio col padre, emblema di ‘dolcezza nella lotta’; oppure il “Non ci siamo arresi!”, grido finale dell’ultimo giovane protetto dal coraggioso Templare Thomas Marshall interpretato da James Purefoy nel film del 2011 Ironclad di Jonathan English, a settecento anni dalla fine di Jacques de Moulay, storia della “Magna Charta Libertatum” strappata il 1215 da baroni e duchi dell’Aquitania ai Re; o quando Philip Seymour Hoffman, con supremo autocontrollo, confida di aver sempre respinto le tentazioni del tradimento di fronte alla congiura ordita dall’altro e astuto consigliere Ryan Gosling nel film Idi di marzo di e con George Clooney; o: “Questa casa è tua ?”, richiesta improvvisa dei giovani al risveglio del vecchio scienziato lungo il viaggio che lo porta al Nobel in Svezia, nel grande Il posto delle fragole di Ingmar Bergman ( Uppsala 1918-1981 ), ideatore della partita a scacchi con la morte di Antonius Block nel Settimo sigillo; e quando nel Cacciatore di Michel Cimino un lunghissimo ‘preludio’ termina con il Notturno di Chopin eseguito al piano nella notte brava da un commilitone in partenza per il Vietnam, e tutti tacciono compresi e assorti nel loro imminente destino, squarciato dal fragore degli elicotteri in volo e dal crepitare delle bombe al napalm, sino alla tragedia della roulette russa gestita da Robert De Niro e subìta da Christopher Walken; o il Blade Runner di Ridley Scott, tratto nel 1982 da un racconto di Philip K. Dick, dove, nella pioggia fine e insistente tutto avvolgente nella condizione della ‘permanenza’, l’ istante è dato dalla ‘pietà’ onde il cacciatore Deckard ( Harrison Ford ) s’immamora di Rachael, replicante sopravvissuta, e Roy Batty ( che è Rutger Hauer ) lo salva sui tetti di Los Angeles 2019, “desiderio dell’umano”, raccolto nel monologo: “Ho visto cose che voi umani non potete immaginare: navi da combattimento in fiamme ai bastioni di Orione”; sino alla musica on the road, con luci e ombre che s’alternano sotto i ponti dell’autostrada, per Dustin Hoffman e Tom Cruise, i due fratelli di Rain Man con Valeria Golino, di cui il primo – svantaggiato – si scopre alla fine aver sofferto per la salvezza del più piccolo incorso in un incidente domestico; e il “Capitano, mio capitano !”, recitato dagli studenti in coro sui banchi al momento dell’abbandono dell’istituto da parte di Robin Williams, in La Società dei poet estinti di Peter Weir, mal tradotto in italiano per “L’attimo fuggente”; o il crescendo di Nostalghia di Andrej Tarkowskj, dedicato al viaggio in Italia del poeta russo Gortchiakov sulle tracce della Madonna del parto di Piero della Francesca, sino agli archetipi dell’acqua e dell’incompiuta Chiesa dei Templari a Lacerenza; o la “Sonata per gli uomini buoni”, scritta a conclusione de Le vite degli altri di F. H. von Donnersmarck ( 2006 ), opera del commediografo Georg Dryman, salvatosi con la compagna per l’aiuto del burocrate pentito Ulrich Muhe, che copre le tracce della loro attività intellettuale di fronte alla spietatezza della polizia segreta Stasi; con il finale emblematico del rapporto padre-figlia ( recuperato attraverso le dimensioni dello spazio-tempo ) nel capolavoro di Christopher Nolan, Interstellar; sino alla grande scena dell’albero della vita sotto il cielo trapunto di stelle, ove a grandi passi conduce la bambina Sophie, per salvarla, il Grande Gigante Gentile, che Steven Spielberg ha tratto dall’omonimo racconto del britannico Roal Dahl.

Così tutto riporta, nell’età di Bergson, il cui nome Joyce ‘giochicchiando’ storpia in Finnegans Wake per ‘Bitchson’ ( ed Einstein in ‘Wainstein’ ), alla categoria del ‘tempo’, quando il macchinismo e il positivismo evolvono internamente in ‘temporalità’ – ‘temporalizzazione’ ( Zeit o Zeitigung ) nel pregevole Hugo Cabret di Martin Scorsese ( 2011 ), storia di un ragazzo dodicenne affascinato dall’orologiaio nella stazione parigina di Montparnasse ( Ben Kingsley ), che si scopre tra i fondatori dell’arte cinematografica d’inizio secolo, il Georges Méliès di “Dalla terra alla luna”. Né si possono sottacere – in questa pur estesa rassegna di momenti filmici esponenziali – la scena del bambino sotto l’acqua che invoca l’aiuto del medium Matt Damon in Hereafter di Clint Eastwood; o il potente Beautiful Mind con Russell Crowe nei panni del matematico John Nash, tra fragilità e genialità, dolcezza profonda e manie di persecuzione; e infine Rush ( del 2014 ), film diretti entrambi da Ron Howard, e incentrato – l’ultimo dei due – sulla rivalità storica tra i piloti James Hunt e Niki Lauda, quando, dopo il drammatico incidente al circuito di Nurburing del 1° agosto 1976 e la degenza in ospedale, il campione austriaco vuole tornare coraggiosamente in campo ma, nell’ultima impossibile gara sotto la pioggia del circuito giaponese, percepisce le trepidanti immagini della moglie come velate nel furore della tempesta, e responsabilmente decide di rititarsi dalla competizione, mediando così la temerarietà con l’amore e il rispetto della vita. Così, il dialogo tra i due vecchi amici Marck e Ian che si ritrovano per discutere della Struttura di cristallo (1969 ) è affidato dal regista polacco Kryzstof Zanussi alla musica, per rendere efficacemente l’idea dell’incastro di anime e intelligenze, dopo che il secondo dei due ha abbandonato la ricerca scientifica per ritirarsi a vita di campagna ( cfr. il mio La struttura di cristallo, in “pannunzio magazine” – “dibattiti” del 2 giugno 2020 ). A questa certo sommaria, per quanto impegnativa, esemplificazione ha indotto la fitta serie di riferimenti alla “Storia secolare del cinema”, edita da Paolo Vieta, contribuendo alla individuazione di percorsi comuni a ‘cinema e filosofia’, il cui interesse e campo metodico può forse risultare di qualche utilità nella crisi generale indotta dalla pandemia. NOTA. Sul motivo dell’ Anima ( ASA-NISI-MASA ) nei film di Fellini, da Otto e mezzo a Giulietta degli spiriti; e “HADJEK” ( Anima ) nei ‘quartetti’ dei film di Bergman, Il silenzio del 1962, Persona (“Alma” ), Sussurri e grida ( 1970 ), Donne in attesa ( 1952 ), Come in uno specchio, Il volto, dedicato alla “compagnia medico-ipnotica del dottor Vogler” ( 1959 ), v. i miei L’anima e l’Occidente, Andria, Libera Università ‘G.B. Vico’, 2000 e Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva, Laterza, Bari 2000, vol. II, Sezione “L’anima e l’apparato”; oltre ai contributi di Sergio Trasatti ( “Il Castoro”, Firenze 1993 ) e Guido Aristarco ( “”I sussurri e le grida”, Palermo 1988 ), tutti con riferimenti alla “illuminazione” dei destini dei personaggi, principalmente femminili.

Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la Puglia

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