Il mito d’Europa rapita da Giove tramutato in toro ha una lunga storia che nasce nelle Metamorfosi di Ovidio ( II, 836-875 ), torna negli Idilli di Mosco ( II, 37-62 ) e riaffiora nella Scienza Nuova seconda del 1744, al capoverso 743 dell’edizione Nicolini: “Posti questi princìpi ( i.e.: Della geografia poetica ), alla gran penisola situata nell’ Oriente di Grecia restò il nome d’Asia minore, poi che ne passò il nome l’ ‘Asia’ in quella gran parte orientale del mondo ch’ Asia ci restò detta assolutamente. Per lo contrario, essa Grecia, ch’era occidente a riguardo dell’ Asia, fu detta ‘Europa’, che Giove, cangiato in toro, rapì. Poi il nome d’ ‘Europa’ si stese in quest’altro gran continente fin all’oceano occidentale”.
Poco prima, Vico ha anche spiegato, al capo 635 di “Siegue la politica degli eroi”, Capitolo sesto della Sezione quinta: “Questi ( i.e.: ‘corseggi, atti di pirateria’ ) deon essere stati il toro con cui Giove rapisce Europa, il minotauro o toro di Minosse, con cui rapisce garzoni e fanciulle dalle marine dell’ Attica ( come restarono le vele dette ‘corna delle navi’, ch’usò poi Virgilio ); e i terrazzani spiegavano con tutta verità divorarglisi il minotauro, che vedevano con ispavento e dolore la nave ingoiarglisi”. Dove il Nicolini corregge la citazione di Virgilio ( III, 549 dall’ Eneide), non esser le vele dette “corna delle navi” ma semmai le punte delle vele, di fronte allo spavento dei “terrazzani”, che sono gli abitanti di città ( Fausto Nicolini, Commento alla Scienza Nuova seconda, Roma 1950, vol. I, pp. 280-281 ). “Il toro rapiente Europa e il Minotauro furono navi corsare nella cui prua era scolpito un toro”, commentava – e precisava – lo stesso Vico nel De constantia jurisprudentis, II, 29, 9 e Scienza Nuova prima, V, 8.
Calzante è, poi, l’altra nota nicoliniana ( in Commento, I, 323 al capo 743 ): “Asia è ‘Asia minore’ ( Erodoto VI, 43 ), dove l’Asia Minore è chiamata ‘Asia’ senz’altra aggiunta ( è l’ “assolutamente” del Vico ): la parola fenicia ‘Asi’ equivale a ‘medium’, ossia la parte del continente asiatico ch’è media tra l’Europa e l’Africa, cioè appunto l’Asia minore”. Chi non voglia risalire, ancor qui, a Esiodo, che nella Teogonia fece nascere Europa, figlia di Teti una Nereide, e sorella di Asia.
Proseguendo il medesimo contesto, il Vico aggiungeva: “Così l’Orca vuol divorare Andromeda incatenata alla rupe, per lo spavento divenuta di sasso ( come restò a’ latini ‘terrore defixus’, ‘divenuto immobile per lo spavento’ ); e il cavallo alato con cui Perseo la libera, dev’essere stata altra nave da corso, siccome le vele restaron dette ‘ali delle navi’ “. Qui il mito dell’Orca deriva dall’ Erodoto delle Storie ( II,91 ) e dalla Geografia di Strabone ( I, 2, 35 ); fino a riapprodare alle Metamorfosi di Ovidio ( IV, 671-734 ). “Come nave corsara che razziava fanciulle”, è ripetuto in nota 129 al Diritto Universale ( cfr. l’ed. Nicolini delle “Opere”, II, al 3° volume, p. 658, e la nota di Andrea Battistini alle Opere viciane, nei Meridiani, Milano 1990, II, p. 1655 ).
Risalta nella “Geografia poetica” di Vico l’aspetto antropologico del mito, e della sua lettura: il “terrore” per incursioni, razzie, piraterie, segnatamente tracciate con le navi dal mare. Qui s’innesta la contrapposizione Europa – Asia; così si spiega la combinazione Orca – Andromeda. Dove Orca è “nave piratesca, quae per oras Aethiopiae virgines rapiebat’ ( nelle Note al “Diritto” ); e Pegaso è “cavallo” ai capoversi 537 e 713 ( annotano puntualmente il Nicolini e, poi, il Battistini ), ma “cavallo alato” al 635. Tutto ciò avviene perché Erodoto e Strabone, Virgilio e Ovidio, in Vico, hanno collaborato a costruire mitologemi che ruotano attorno a un fulcro ermeneutico: il ‘terrore’ per le incursioni e le razzie e rapine di persone, e femmine, ancor prima e più che di beni e cose.
Per ciò stesso, in siffatto contesto, Pegaso interessa solo per quel che riguarda gli effetti temuti della “razzia dell’universo”, non premendo al Vico la coerenza sistematica e generale tra la definizione di “cavallo” tout court e di “cavallo alato”, specificatamente:in quanto emblema di “navi alate”, spargenti terrore e orrore.
Si riguardi, poi, com’è fulgido e corposo insieme lo stile di Vico: fulgido perché richiama e risveglia immagini mitiche ( “terrore defixus”; il ratto d’Europa; l’Orca; la caravaggesca Medusa); corpulento dal momento che s’imprime dell’orrore e della memoria delle tante, ancora attuali ( nel suo tempo, e forse nel nostro tempo ) incursioni piratesche.
Dopo i martiri di Otranto del 1480, lungo e su per Adriatico e Mediterraneo, fino a Venezia e Roma, nel Cinquecento assediando e minacciando, gli Arabi avevano puntato alla conquista di Europa. Altra prova era fornita dai ripetuti assedi di Vienna del 1529-1530 fino al coevo ( per Vico ) 1683. Sia consentita una incursione iconografica nella storia dell’arte, per tornare subito dopo al Vico.
Al 1529, epoca del primo assedio turco a Vienna ( quello in cui si distinse a difesa della città Giovanni da Capistrano, onorato nel pulpito della Cattedrale di Santo Stefano ), Albrecht Altdorfer ( 1480-1538) dipinse la Battaglia di Alessandro e Dario a Isso, olio su tavola custodito a Monaco. Da parte sua, la Serenissima Repubblica Veneta ingentilisce nell’arte di Paolo Veronese la storia biblica della giovane ebrea Ester incoronata da Assuero (1556, Venezia nella Chiesa di San Sebastiano ); ed il “Ratto d’Europa”, composizione classica e prospetticamente centrata del 1580 (Palazzo Ducale ), che Luciano Canfora sceglieva in copertina dell’avverso all’ Occidente Alfred Toynbee, per Il mondo e l’occidente ( ed. it., Sellerio, Palermo 1992, dal ’52 ). Ma Vico ci fa volare sempre più in alto, come amava ripetere James Joyce, e ci riporta insieme sulla terraferma, la regione dei “terrazzani”, minacciati e spogliati dai corseggi ( a un tempo pirateschi e musulmani ), prova storica effettuale e concreta del “ratto d’Europa”. Giova il confronto con l’altro ‘rapimento d’Europa’, quello di Giambattista Tiepolo 1725, più mosso e drammaticamente situato sullo scorcio del mare.
Terrore defixus, “reso immobile per lo spavento”, mirabilmente scrive il Vico, non ignaro di prestiti barocchi e secenteschi, tanto da richiamare iconologicamente la “Testa di Medusa”, tela che rivestiva uno scudo ligneo eseguita da Michelangelo Merisi per il cardinale Del Monte, e da questi inviata al granduca di Toscana Ferdinando ( verosimilmente nel 1601 ). Celebrata dal Murtola in un madrigale delle sue Rime (1603) e dal Marino nella Galleria (1620 ), ricorda il Ragazzo morso dal ramarro ( Collezione Longhi, di Firenze ) e specialmente l’urlo di Isacco nel Sacrificio d’Isacco, sempre agli Uffizi. Icona del terrore assoluto, che il filosofo napoletano continuerà ad affisare nella “Scienza Nuova” e nel “Diritto Universale”.
L’ultima grande paura è stato l’assedio di Vienna, vinto nella battaglia dell’ 11 settembre 1683, quando la “mela d’oro” ( così Maometto denominava la cittù imperiale ) fu liberata con il decisivo intervento di Giovanni Sobieski ( sollecitato da Antonio Carafa ). Molto ruota intorno all’evento. Nel mito e nella retorica che presto l’accompagnarono, esaltandone la importanza, è forse lo spartiacque anche per la dottrina vichiana della “barbarie ricorsa”, o “barbarie della riflessione”. Chi voglia per un attimo seguire l’arte di “ritrovare il tutto della cosa”, che Vico stesso definiva la “topica” dell’indagine, non potrà non ricordare – a questo punto – le classiche voci dell’ Inferno dantesco dedicate al Maometto in Malebolge, o della Liberata tassesca. E quanto influsso tassesco sia anche in Vico, sulla linea di percorsi barocchi e secentisti, è stato ben tracciato da vari studiosi ( Biagio De Giovanni, Ezio Raimondi, Andrea Battistini, Pasquale Soccio ).
In via d’esempio, Fausto Nicolini, per la Scienza Nuova seconda, al capoverso 1332, osservava, a proposito dei personaggi storici o pseudostorici ispiratori di opere letterarie e teatrali: “A dire il vero, argomento quanto meno pseudostorico ha il Re Torrismondo di Torquato Tasso (1587), abbozzato sin da 1574 con il titolo Galealto re di Norvegia. D’altro canto, che già nel teatro greco fossero totalmente inventati i personaggi e l’intreccio dell’ Anteo di Agatone, è stato già osservato sopra a proposito del capov. 911” ( Commento, II, pp. 185 e 51-53 ). E al capoverso 1212 ( II, p. 162 ): “Un Dio ch’ a tutti è Giove” – Celebre parafrasi tassesca del virgiliano Jupiter omnibus idem ( cap. 415 ). “Questa metafisica volgare insegnò agli uomini perduti nello stato bestiale a formar il primo pensiero umano da quello di Giove” ( si veda anche il capoverso della Scienza Nuova 379 ).
Ancora, al capoverso 1003, per il giudizio di Polibio sulle cause della fortuna dei romani, è ripresa, “di Torquato Tasso”, la Risposta di Roma a Plutarco nella quale riprova la sua opinione della fortuna dei romani e della fortuna o virtù di Alessandro, nelle Opere, edizione di Venezia, Monti e comp., Vol. XIII (1738), pp. 274-315 “ ( Commento, II, pp. 97-98: con il rinvio al capoverso 1367 e al capitolo 35 del De Constantia Philologiae, nelle Opere di Vico raccolte da Laterza, II, pp. 562-563 ). Peraltro, già nel capov. 383, in sede del proprio laborioso Commento ( I, p. 137 ), Fausto Nicolini ha chiosato: “ Contestabile così, in sede di teoria, che ‘propria materia’ della poesia sia l’ ‘impossibile credibile’, come, in sede di storia letteraria, che i poeti s’esercitino soprattutto nel descrivere gl’incantesimi delle maghe. Comunque, è evidente un’allusione alla Circe omerica, alla Sibilla virgiliana, alla Melissa e all’Alcina ariostesche e all’Armida tassesca”.
Più in generale, a proposito del marinismo e del secentismo, al capov. 471 ( in Commento, I, pp. 192-193 ) e citando le varie fonti storiche di Roma ( Nevio ed Ennio; il Voss, Guntero e Guglielmo di Puglia, trasmigrati nel Muratori dei Rerum Italicarum Scriptores del 1725 ), Fausto Nicolini osservava che “quelle scuole poetiche, tutt’al contrario di ciò ch’egli immaginava, erano propaggini teitische di quel marinismo, contro il quale proprio lui, dopo avervi aderito, aveva preso posizione sin dal 1693 ( Opere, V, pp. 8 e 20 ). Se si vuole, si può riandare all’utilizzo vichiano anche dell’ Orlando Furioso, là dove, al capoverso 654 ( sempre nel lavorato Commento ), è ricordato, su Penelope “vaso d’impudicizia”, il “semischerzoso ‘E che Penelope fu meretrice’ ariostesco (Furioso, XXXV, 27, 8 )”. E al capoverso 873, a proposito del “creduto” Omero, è citato il mito per cui, “in forma scherzosa, addirittura alla già mentovata ottava del Furioso ariostesco (XXXV, 27 ) dalla guerra troiana i greci erano usciti perditori” ( Commento, II, pp. 37-39 ). Si può vedere, infine, al capoverso 909: “Nell’osservazione che ‘nella lingua italiana è venuta la melica ne’ di lei tempi più inteneriti e più molli’ un probabile riferimento al Chiabrera e ai suoi initatori e prosecutori” ( II, p. 49 ).
Così, sulla presenza del barocco in Vico, restano i contributi di Biagio De Giovanni, Vico barocco ( “Il Centauro”, 1983, n. 6 ) e La vita intellettuale a Napoli fra la metà del ‘600 e la restaurazione del regno ( nella Storia di Napoli, ESI 1970, vol. VI/1 ); Amedeo Quondam, Dal barocco all’Arcadia ( ivi, VI/2 ); riferimenti nelle edizioni curate da Pasquale Soccio (1983 ) e Andrea Battistini ( 1990 ); lo stesso Ezio Raimondi, in Poesia come retorica ( Firenze 1980: dove si dimostra la genesi della “poesia eroica” del Tasso, sia in rapporto alla poesia di Giovanni Della Casa che alla poetica di Demetrio Falereo ); Ernesto Grassi di Potenza della fantasia ( ed. it., Napoli 1990 ) e Retorica e filosofia ( nel Vico e l’umanesimo, Milano 1992, pp. 95-112 ); Giuseppe Patella, Giambattista Vico. Dal Barocco al postmoderno, in Resumen de ponencias. Riassunto delle Relazioni ( Napoli, “La Città del Sole”, 1999, pp. 124-127 ); Massimo Lollini, Le Muse, le maschere e il sublime. G.B. Vico e la poesia nell’età della ‘Ragione spiegata’ ( Guida, Napoli 1994: con Introduzione sempre di Andrea Battistini )
Questa fitta rete di richiami su Vico e il perdurante, parziale, secentismo si arricchisce ora del mito dell’orrore, fatta testa della “Medusa”, in un Caravaggio da sùbito noto e ammirato per Giambattista Marino della “Zampogna”, e stampato nell’icona del terrore defixus di Vico.
Dove, beninteso, non si tratta più solo di mero esercizio di stile o letteraria impronta e derivazione; sì – bene – dell’incidenza storica del tragico quotidiano, l “’ultima paura” e la lotta vittoriosa portata verso di essa dall’ Occidente cristiano e dalla Europa cristiana.
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